Basta! Io con te non ci parlo più!
Il mio rapporto con Tania è pura empatia, maturata in anni di allenamenti e fatiche vissuti spalla contro spalla, cuore contro cuore.
Prima di ogni competizione noi non ce lo siamo mai dette qual’era il nostro obiettivo.
Mai.
Non ci siamo mai parlate dopo un tuffo, mai un commento durante la gara.
Il perché è un misto di cose, tutte importanti, tutte reali, tutte figlie della nostra profonda simbiosi.
Un po’ di scaramanzia, un po’ di abitudine.
Ma quei silenzi erano espressione più che altro della nostra totale sintonia, le parole non avrebbero aggiunto nulla alla nostra comunicazione, un flusso costante di informazioni condivise tra noi due.
Condivise perché vissute all’unisono.
Sul trampolino i nostri cuori e le nostre menti hanno sempre viaggiato sullo stesso binario, una sorta di telepatia, siamo persino arrivate ad assomigliarci sempre di più nei modi e nei gesti.
A Londra, il 29 luglio 2012, combattendo per una medaglia olimpica, tra il terzo ed il quarto tuffo, Tania tirò un sospiro di sollievo e per la prima volta infranse quel nostro silenzio sacro.
I primi 2 tuffi sono quelli obbligatori e noi eravamo lì, sul podio virtuale, dietro alle inarrivabili cinesi.
Questi primi tuffi, identici per tutte, valutano l’eleganza sopra ogni cosa e noi siamo sempre state tra le migliori del circuito in questo.
Il silenzio tra di noi era in realtà, come sempre, una densa comunicazione: sapevamo che il terzo tuffo era il nostro punto debole, o meglio il mio punto debole.
Ma ero fredda e concentrata: quel tuffo fu un successo, mai fatto così bene.
Non so dire con certezza se l’essersi parlate prima del quarto tuffo, sull’onda emotiva di quello precedente, abbia cambiato un qualcosa nella nostra concentrazione o nelle nostri abitudini.
Se ha spostato l’asse della Terra.
Glielo dissi:
Tania non è finita!
Nel quarto tuffo qualcosa non funzionò, il nostro sincro non fu impeccabile e i giudici ci castigarono ben oltre i nostri demeriti!
Un tuffo che non dimenticherò, un tuffo che, a caldo, mi ha dato una forte delusione.
Io e Tania arrivavamo da anni di duri allenamenti e di grandi risultati, una conferma dietro l’altra: 1 argento mondiale a Roma nel 2009 e 4 ori europei consecutivi.
Tutto lasciava intendere che la strada era quella giusta perchè il lavoro ci stava ripagando con i risultati in maniera costante e puntuale.
L’anno olimpico è sempre un periodo carico di tensione, nelle nostre teste, che sul trampolino diventavano una, il sogno di una medaglia olimpica era diventato una piacevole ossesione ed il nostro impegno negli allenamenti lo dimostrava.
Giorno dopo giorno.
Le nostre aspettative erano alte e così anche quelle degli altri.
Fino al terzo tuffo le avevamo rispettate appieno.
Il quarto aveva crepato le nostre certezze.
Nell'ultimo tuffo cercammo di fare del nostro meglio per recuperare i punti persi, eravamo tra le prime e ci è toccato aspettare i tuffi delle altre coppie in un silenzio surreale e preoccupato.
La coppia canadese, con cui ci giocavamo la medaglia, fu imprecisa nell’esercizio, ma la giuria fu più clemente nei loro confronti.
Per soli due punti restammo giù dal podio.
Il buio.
La gara poi l’abbiamo rivista, più e più volte, analizzando ogni ripresa, ogni gesto tecnico nostro e delle canadesi.
Questo ha aumentato le nostre certezze.
Sul podio saremmo dovute salire noi.
È più faticoso accettare l’errore altrui, rispetto che il proprio.
Con sé stessi ci si può arrabbiare, ci si può punire. Con gli altri no, e resta una frustrazione latente.
Il quarto posto, le ore spese ad allenarmi, sfumate per due punti, una virgola, un niente.
Quello scambio di parole avuto sul trampolino, come non era mai successo prima.
All’improvviso mi sono accorta di volere anche altro nella mia vita.
Altro per me stessa.
Ero fidanzata da tanti anni con quello che poi è diventato mio marito, desideravo una famiglia, una nuova quotidianità.
Sono stati giorni di riflessione.
Seguiti da una lunga vacanza.
Volevo mettere il mio prima di tutto, volevo dare alla mia vita certezze diverse ed un abito nuovo, che raccontasse di me quello che sono, che è molto di più che una grande atleta.
Mi sono sposata nel 2013 e, con il tempo, con il calmarsi della mia mente il richiamo dello sport si è fatto più insistente.
Trascorrere 6, 7 ore al giorno ad allenarsi, anno dopo anno, genera una sorta di dipendenza dal lavoro, dall’adrenalina. Una necessità.
Abbiamo ripreso a tuffarci, con la testa più leggera, con una visione un po’ più distaccata, quasi fatalista.
Forse era il destino, ci siamo dette.
Spesso.
Armata di una nuova serenità e leggerezza sono ripartita e in rapida successione abbiamo vinto l’oro agli europei e l’argento ai mondiali di Barcellona, io e Tania.
E poi sono partita per il mio viaggio di nozze.
Eravamo rinate.
Sempre noi, connesse profondamente, legate a doppio filo, eppure io ero diversa, più completa e consapevole, pronta ad affrontare un altro quadriennio olimpico.
Riparlammo spesso di Londra:
forse era destino;
chiusa una porta si apre un portone;
forse ci è stato riservato qualcosa di più bello.
Ma queste non erano le sole parole che rimbalzavano tra di noi.
Ci chiedevamo spesso come avremmo reagito se fosse ricapitata una beffa simile.
È magnifico ed elegante il nostro sport, ma anche crudele: tutto, davvero tutto, può svanire in pochi secondi.
Serve un’applicazione enorme per raggiungere certi livelli ed un’umiltà incredibile per mantenerla nel tempo.
Dopo aver messo in bacheca un altro titolo europeo nel 2014, era giunto il momento di rimettere nel mirino i cinque cerchi: Rio de Janiero.
Quello che ci ha preparato per la mia terza olimpiade è stato un anno durissimo, vissuto con la costante voglia di sfidarmi in ogni allenamento, di mettermi in difficoltà e di crescere. Senza compromessi.
Io e Tania siamo tornate a sincronizzare tutto, anche i nostri battiti del cuore, a comunicare senza parlare.
Nulla è stato lasciato al caso, niente di improvvisato.
Niente.
Un anno densissimo di lavoro fisico e mentale.
Ci siamo anche affiancate ad una psicologa per esplorare i dettagli più nascosti del nostro rapporto, da cui tanto dipende il nostro successo o fallimento.
È stata in uno di questi incontri nei quali le ho detto che:
Basta! Io con te non ci parlo più!
Glielo dissi veramente.
Mi riferivo alla gara di Londra, ovviamente, e alla mia intima convinzione che aver parlato, in un momento nel quale non lo facevamo mai, mi avesse, ci avesse, spostato degli equilibri impercettibili.
Sensazioni, millimetri, un respiro più affannoso.
Cose che per noi sono tutto.
L’Olimpiade di Rio si è svolta nell’inverno dell’emisfero australe, in più ci si tuffava all’aperto.
Il freddo, il vento, la pioggia come possibili nemici.
Un corpo bagnato rende le prese più difficili e rischiose.
E le ombre.
Un’ombra, al momento sbagliato, nel punto sbagliato, può cambiare molto del tuo esercizio.
Dettagli.
La mattina della gara è stata un disastro, troppo vento.
Non è stato possibile neppure allenarsi. Anche il banner con il simbolo delle Olimpiadi era stato trascinato via dalle folate ed infatti durante la nostra gara alle spalle non c’era più.
Ma nel pomeriggio tutto divenne improvvisamente perfetto.
Dal clima a tutto il resto.
Era tutto molto diverso, per la prima volta i miei genitori non organizzarono la solita festa per seguire la gara, si chiusero in casa, soli, a guardarci.
Mi tremavano le gambe.
I primi due tuffi sono nostri, come sempre; ci serve una partenza forte e lo sappiamo.
Siamo lì attaccate alle cinesi.
Tania guarda spesso il tabellone, lei ha una mente analitica e matematica, soprattutto in gara.
Io sono più emotiva, cerco nei suoi occhi la conferma di quelle che sono state le mie sensazioni in volo.
Il terzo è l’avvitamento avanti. Fatto bene, uno sguardo d’intesa e nulla più.
Uscite dall’acqua dopo il quarto tuffo io mi sento una roccia, ma un lampo di incertezza negli occhi di Tania mi blocca.
Non guardo il tabellone.
Ho preso un po’ male la tavola dice, significa avere un’elevazione inferiore a quella che serve.
Sei tranquilla?
Nì
Non voglio parlare in gara, non voglio perdere il mio equilibrio.
Mi allontano fisicamente da lei, mi ripeto che non può risuccedere.
Non può.
Quinto e ultimo tuffo.
Esco velocissima dall’acqua e non faccio a tempo a guardarmi intorno che mi sento travolta dall’abbraccio forte di Tania.
La tensione si scioglie nelle braccia l’una dell’altra.
Una mente sola ed un corpo solo.
È finita, comunque vada è finita.
Sapevo che avevamo un po’ di margine, ma non sapevo dire quanto.
Non riuscivo a quantificarlo.
Col passare dei minuti ero sempre più impaziente. I tuffi delle altre proseguivano e la medaglia era sempre più vicina.
Anche le doti matematiche di Tania iniziavano a vacillare.
Seconde?
Siamo seconde?
Chiedevo
Non so, non sono più sicura!
Rispondeva, con lo sguardo un po’ perso, un po’ sognante.
Seconde, si.
Eravamo seconde.
Un argento olimpico. Un’esplosione di gioia difficile da descrivere.
Fatico a non commuovermi ancora oggi scrivendo queste righe.
Parabola magnifica di due anime che hanno condiviso tutto.
Trionfi e delusioni.
Certezze e paure.
Parole e silenzi.
Mi sono fermata una settimana a Rio dopo la gara, con mio marito.
Al ritorno in Italia ero già incinta.
Donna.
Moglie.
Vice-campionessa olimpica.
E adesso anche madre.