Immaginate un professionista. Immaginatelo vestito bene, elegante, non importa se con la cravatta, con una valigetta ventiquattr’ore o un semplice pullover con camicia. L’abito è indifferente, ma immaginatevi di essere incuriositi dai suoi tratti distinti e di avvicinarvi chiedendogli:
Scusi, che lavoro fa lei?
Se vi rispondesse Sono un avvocato, oppure “faccio l’architetto”, o ancora “Sono ingegnere”, sareste capaci di immaginarvi una sua giornata-tipo di lavoro? La risposta è no, ovviamente, non tanto perché lontani dal contesto lavorativo di cui si starebbe parlando, ma semplicemente perché si tratterebbe di campi di lavoro enormemente ampi, variabili, e che spesso hanno una caratteristica comune: sono campi dove è facile l’astrazione.
Prendiamo ad esempio il mondo dell’ingegneria. Cosa fa un ingegnere? Fa il genio? Oppure è uno che si ingegna? Ma poi, cosa vuol dire essere un ingegnere? La verità è che la risposta alla semplice domanda sul lavoro di quella persona non ci spiegherebbe nulla di quello che operativamente si fa in quel campo. E allora bisogna dare una connotazione reale ad un’idea astratta, ed ecco che si “realizza un’astrazione”, ci si inizia ad immaginare quell’ingegnere che cerca di risolvere un problema che gli viene posto, lo si immagina mentre raccoglie tutte le informazioni necessarie, magari mentre esegue dei calcoli o ipotizza scenari di sviluppo differenti. E infine, dopo un percorso mentale che tutto sommato ci sarebbe oscuro nei suoi dettagli, arriviamo all’immagine di una macchina che funziona, di una catena di montaggio che sforna prodotti finiti, o qualcosa del genere.
Un pensiero analogo lo si potrebbe fare per l’avvocato e l’architetto. Immagineremmo l’avvocato chino su libri di diritto cercando di inquadrare il caso che gli viene posto, sempre dopo aver raccolto le informazioni necessarie, poi dritti con la fantasia in aula di tribunale mentre arringa il giudice e sostiene il classico “Obiezione vostro onore!”, per arrivare alla stretta di mano col cliente che lo ringrazia dell’esito della causa. Per l’architetto addirittura passeremmo da un tavolo da lavoro con squadra e compasso fino ad un cantiere edile, per arrivare alla classica bottiglia di Champagne che rompendosi inaugura il grattacielo più bello che si potesse progettare, con tanto di commozione del nostro nuovo conoscente che con vistose lacrime si compiace del risultato di ore e ore di lavoro.
Tutto bellissimo. Ma in verità non abbiamo nessuna informazione nuova da quella persona, perché siamo ancora fermi al momento nel quale ci siamo arricchiti solo di un’informazione: il lavoro che svolge.
Ci sono tre punti focali che ancora non conosciamo: i dettagli tecnici (la teoria) del lavoro che svolge, le informazioni che deve raccogliere e le strategie operative che mette in atto. Ciò è confermato dal fatto che nemmeno con l’immaginazione riusciremmo a prevedere le parole dell’arringa dell’avvocato, i numeri scritti dall’ingegnere o i disegni tecnici dell’architetto.
Teoria, valutazione e strategie operative. I tre punti che separano un professionista da un profano, i tre punti che per tutti sono qualcosa di astratto ma che l’esperto della materia in questione deve essere in grado di far diventare realtà.
E non esiste nulla di più astratto nella mente del movimento umano.
Il corpo umano, quello fatto di ossa, muscoli, tendini, legamenti e articolazioni, lo conosciamo molto bene. Siamo dei chirurghi della topografia umana, sappiamo dove si trova qualunque struttura. Ma non basta. Bisogna andare più in profondità, sapere in che modo tutte le strutture interagiscono tra di loro, e in che modo questo insieme si relaziona con lo spazio, il terreno e l’aria, ed il tempo. E infine dobbiamo essere competenti su come il nostro centro di controllo, il cervello (non me ne vogliano i puristi per la profanità del termine), gestisce tutto questo unicum di tessuti. Insomma non è facile, per nulla, anche quando la geografia del corpo umano è ben conosciuta. Pensate sia finita qui? Assolutamente no, perché non bisogna dimenticarsi del gesto tecnico, quell’insieme di movenze che permette all’atleta di eseguire in modo efficace ed efficiente la sua disciplina sportiva. Efficace per la riuscita del risultato, efficiente nel senso dell’economia del gesto.
Fare il preparatore fisico significa trovare una connotazione reale a tutti questi concetti astratti, significa capire quali siano i punti da valutare per individuare una mancanza, un difetto, un errore esecutivo che rende meno efficace o efficiente la prestazione di gara. E dopo aver fatto le dovute valutazioni, significa anche trovarne la soluzione. Mi viene in mente una citazione di Andrew Taylor Still, il padre dell’osteopatia, cui viene attribuita la sua più famosa citazione:
L’obiettivo del medico deve essere quello di trovare la salute. Tutti sono capaci di trovare la malattia.
Allo stesso modo, al preparatore fisico è richiesto di trovare la soluzione ad un problema che, sebbene trovato, valutato e prontamente descritto, non per forza viene in automatico risolto.
Facciamo un salto nel tempo, torniamo indietro agli anni di studio, quelli che iniziano col triennio universitario. Si passano tre anni scoprendo qualcosa di nuovo, il corpo umano, imparando come è fatto e come funziona. Si impara anche qualche rudimentale e generale metodica per cercare di stressarlo un po’, il giusto, quel tanto che basta per obbligarlo ad una reazione. Fin qui tutto bene. Poi arriva la laurea, e tutto cambia.
Dalla scuola di guerra escono tutti con 30 e Lode, ma da Bagdad ne tornano pochi.
Brutta vero..? Eppure è una verità assoluta, che deve far riflettere. E di tutte le cose che ho imparato in questa quotidiana battaglia che vivo con serenità in sala pesi, nella palestra di ginnastica o in pista di atletica, forse la più importante è proprio quella che sembra essere la più scontata, la risposta alla classica domanda
cosa si fa con un atleta?
Già, perché in mezzo alle righe la risposta è già stata scritta prima.
Lo si stressa.
Stressarlo…?
direte voi. Esatto, proprio quello. Allenare non è altro se non creare delle situazioni di stress alle quali il corpo cercherà spontaneamente di reagire. E volete sapere cos’è il bello di tutto questo? Che lo fa sempre, esattamente come quando si guarisce da una malattia, il corpo cambia per diventare “qualcos’altro” che non sia più ugualmente fragile come quando si è ammalato. Una sorta di reazione protettiva, che nello sport viene spesso riconosciuta nel cambiamento estetico, come la crescita delle masse muscolari del corpo, ma che dal mio punto di osservazione piuttosto riguarda dei numeri, che descrivono le qualità fisiologiche del corpo, come ad esempio un valore di frequenza cardiaca ad una data velocità di corsa, oppure l’altezza di un salto verticale o il tempo di percorrenza di un sprint. Tutto questo nella scienza dello sport è descritto con un termine specifico, che dal suono richiama subito qualcosa di grande, migliore, una nuova condizione che sicuramente è meglio dello stato precedente: supercompensazione.
Ma bisogna fare attenzione ad un grandissimo principio:
Ciò che è vero, è vero sempre
e questa logica per la quale il corpo impara e si modifica in reazione ad uno stress va osservata in modo ancora più allargato. Non ci si può difatti fermare alla fisiologia del corpo, alle pulsazioni del cuore o all’altezza del salto, perché il discorso può andare più in profondità. Riguarda alcune capacità meno evidenti, meno quantizzabili, prima fra tutti l’aspetto cerebrale, i processi mentali che portano alla coordinazione, agli schemi di movimento, a come ci muoviamo, all’efficienza e l’efficacia di cui si è parlato sopra. Possiamo per esempio andare con la mente alla fase di crescita di un bambino, e chiederci come mai ad un dato mese di vita, qualcosa più o qualcosa meno, un bambino inizi a muoversi in giro per il salotto di casa, oppure si eriga su due gambe, o magari parli.
Cosa porta un bambino a fare qualcosa che non faceva fino a poco tempo prima?
Se la risposta più scontata sembra essere il semplice fatto che sia pronto per farlo, potrei anche essere pienamente d’accordo. Ciò nonostante mi permetto di aggiungere un dettaglio non irrilevante, ovvero la ripresa del concetto di stress di cui sopra. Se è vero che un bambino non si muoverà mai per la stanza fino a quando non sarà in grado di farlo, è altrettanto vero che non espleterà questa sua neo-capacità fino a quando non ne avrà necessità. Ecco lo stress. E la dimostrazione logica è che i bambini ai quali vengono messi sotto il naso i giochi, non si muoveranno mai per andare a prenderli.
Cosa c’entra questo con la preparazione fisica? Tutto, perché lo scopo del mio lavoro è mettere l’atleta il più lontano possibile dai suoi giochi, creargli uno stress, farlo stare lontano dalla sua zona di confort, dove ha tutto sotto controllo e può fare qualunque cosa senza avvertire fatica, senza difficoltà. Portarlo davanti ad una situazione da risolvere, un problema, per superare il quale dovrà ricorrere a fatica, impegno, lavoro fisico e mentale, imparando anche a muoversi meglio o diversamente diventando, per fare un esempio, a volte più veloce, quindi efficace, a volte più abile, quindi efficiente. E più lo stress è corretto, né troppo né troppo poco, più si vedranno dei miglioramenti.
Mettendo un attimo di ordine possiamo quindi dire che esistono due macro-famiglie di intervento del preparatore fisico: le qualità fisiche propriamente dette e le abilità motorie. Le prime sono descrivibili numericamente, come il tempo di uno sprint di 30 metri, le seconde sono più complesse. Sono qualcosa di astratto che bisogna riconoscere, capire, concretizzare. Sono un’arringa della quale il preparatore conosce tutte le singole parole, le linee del progetto del grattacielo, i numeri dell’equazione.
Ecco che allora forse si capisce il perché si stressino tanto gli atleti con tonnellate di esercizi di tecnica di corsa, gestualità con un bilanciere, lavori con gli ostacoli, con superfici instabili, scivolose, di altezze diverse, gradini, pendenze, lavori di rimbalzo, esercizi di salto e lancio per imparare nel migliore dei modi a scaricare a terra tutti i cavalli del motore, o meglio, dei motori. In altre parole, scusate la ripetizione, il movimento umano. E, per rendere reale questo concetto astratto, si ritorna ancora, nella metodologia dell’allenamento, ai numeri.
Sono cresciuto in università imparando che i numeri sono tutto, ed è vero. Nei numeri, che non mentono mai, si possono trovare tutte le risposte, che non riguardano solo il dato oggettivo e quantitativo che metrizza una prestazione. Possono anche oggettivare il tempo di contatto al suolo del piede durante un salto o uno scatto, l’escursione di un’articolazione del corpo, e il timing con il quale i segmenti del corpo si muovono reciprocamente. Fare il preparatore significa anche riuscire a intuire con gli occhi quali numeri descriverebbero tutto questo.
Si guarda un atleta, si analizza la sua prestazione, il suo gesto tecnico, come si muove. Si confrontano i numeri che ne descrivono la gara, e bisogna capire dove migliorare. E torniamo alle due macro-famiglie: a volte è il cuore che pompa meno di un avversario, a volte è il costo energetico di quel movimento.
Sarebbe fortissimo, se riuscisse a muoversi meglio
Quante volte ho sentito questa frase, e quanto volte la soluzione attuata è stata aumentare la cilindrata del motore, che sia il cuore o i polmoni, o i cavalli, che potrebbero essere i muscoli. Ma dopo molti anni si arriva ad un secondo step, cioè che il problema non può essere risolto sempre e solo aumentando la capacità assoluta di prestazione, bensì stimolando l’atleta a trovare la capacità di esprimere al meglio il proprio potenziale insegnandogli a muoversi bene. Tutto questo rientra nel concetto di tecnica esecutiva, che non è solo il gesto tecnico specifico di un dato sport, ma riguarda anche il modo col quale ci si muove.
Tutto questo è ancora tecnica, movimento umano, è imparare a muoversi, perché non si può pensare che sia solo la forza muscolare assoluta a fare la differenza. Bisogna pensare a come si esprime la forza, la tecnica di esecuzione prima di tutto. I preparatori sono quei pazzi che cercano sempre di proporre degli esercizi difficili, complessi, inarrivabili o quasi. Dei “giochi” dove gli atleti si devono muovere risolvendo il percorso o un compito, come un circuito ad ostacoli, una gestualità in volo, o il sollevamento di un bilanciere. E non basta riuscirci, bisogna farlo muovendosi in modo corretto, perché solo cosi si impara a muoversi correttamente.