Quando la maestra passava tra i banchi a ritirare i soldi per andare in gita io andavo in panico. Mi veniva letteralmente male al cuore, lo sentivo battere fortissimo e, con i pugni serrati stretti stretti, ripassavo nella testa le parole che dovevo dire:
- me li sono dimenticata a casa -
Il sollievo nel sentire: - portali pure lunedì - il battito che rallenta, la calma che ritorna lentamente in possesso di me.
Le mani che stringono matite e la smettono di consumarsi una dentro l'altra.
Dire le bugie è molto difficile per una bambina, mentre è stranamente facile per i grandi; ma se da piccola dovevi dirne una per forza allora era meglio arrivare preparata. Attenta e precisa, per non tradire l'emozione e farsi scoprire.
Oggi quando vedo un bambino dire una bugia mi viene da sorridere e fargli l'occhiolino.
Non ti preoccupare, penso ti copro io.
Chissà se io ero abbastanza brava a dirle.
Alla fine di gite a scuola non ne ho mai saltata nemmeno una, ma il ricordo di quello che sentivo quando ci dicevano quanti soldi avrei dovuto portare per andarci non c'è modo di dimenticarlo.
E non c'è neppure voglia di dimenticarlo, perché questa è la mia storia e la nostra storia è tutto ciò che abbiamo. E allora va bene così.
Ricordo anche la dolcezza ferma di mio padre mentre mi diceva:
- certo che ci puoi andare, i soldi da dare alla maestra te li do la settimana prossima-
Dolcezza ferma.
Gentilezza decisa.
È un misto perfetto fatto in egual misura di dignità e di realismo.
Quello che si può, quando si può, riuscendo anche ad esserne sinceramente grati.
Esiste una differenza enorme tra fare il riassunto di una vita, di cui gli estranei hanno già letto dei pezzetti qua e là, e parlare di me, di me Miriam
Parlare di Miriam.
È più semplice.
È più economico dire che i miei genitori sono degli immigrati e che quindi come tutti gli immigrati hanno dovuto affrontare enormi difficoltà.
È più facile dire che: integrarsi è stato complicato per me.
Quanto è più comodo racchiudere tutto quanto in un: la pallavolo mi ha aiutato a farlo.
Basta una frase, forse due, ed ecco il vostro titolo, il sottotitolo e tutto il pezzo da mandare in stampa.
E la storia, la mia storia, diventa un elenco puntato di cose che sono iniziate e poi, per voi, finite, sulle quali potete appiccicare in bella vista l'etichetta del lieto fine.
È come quando ti innamori.
Provi a raccontarlo a qualcuno e quel qualcuno mentre ti ascolta cerca subito di rinchiudere ciò che stai dicendo dentro categorie che già conosce.
Ti piace perché il suo carattere è perfetto con il tuo,
ti piace perché finalmente sei pronta ad amare,
ti piace perché è alto, grasso, magro, bello, brutto, calvo.
Ti piace perché: lo so io il perché!
Per tutti, e per tutto, c'è una spiegazione; una linea di pensiero che prende quel che provi e lo trasforma in uno schema senza poesia, una pagina senza colore adatta, appunto, solo per il titolo di un giornale.
Eppure quando mi sono innamorata io è stato unico e profondo, perché quel che senti dentro è spesso incomunicabile; e lavora per immagini, roba che ti succede di fronte agli occhi e dentro al petto, che diventa tua e soltanto tua.
La mia storia è fatta con i miei ricordi.
Un mattone alla volta per costruire il mio passato e la mia vita.
E per farlo serve fatica, soprattutto mia.
La mia infanzia è stata difficile, e io mi ricordo tutto. Tutto.
Mi ricordo ogni sensazione provata, ogni parola detta, ogni insulto preso e la rabbia che mi portavo appresso dopo averlo ricevuto.
Rispondevo agli insulti, lo facevo sempre, perché io mi sentivo forte, io ero forte, e quelli erano insulti infami. Poi, tutte quante le volte, mi fermavo e non reagivo più, perché in casa mi ripetevano sempre che non si possono mai alzare le mani e la sola cosa che mi animava più delle cattiverie era il desiderio di non deludere i miei.
Quando me lo ricordavo si spegneva l'interruttore, e tacevo.
Sono stata una bambina consapevole fin da subito.
Mi sono sempre resa conto di ciò che potevamo e di ciò che non potevamo permetterci. E per me non è mai stato un problema, anzi, era l'occasione di sentirmi utile, anche senza dirlo a voce alta.
Prendi i biscotti che vuoi.
Io prendevo quelli che costavano di meno e per questo mi sentivo responsabile, mi sentivo felice perché era giusto prender quelli e non quegli altri.
Certo mamma, allora voglio questi.
A Babbo Natale non ho mai creduto, sapevo che erano mamma e papà a portare i regali, e saperlo rendeva il Natale, se possibile, ancora più magico. Perché tra un benefattore che gira sopra una slitta volante portando doni a chiunque li chieda ed i propri genitori che fanno dei sacrifici pur di vederti aprire un regalo la mattina del 25, a romanticismo davvero non c'è gara.
Nelle mie letterine indirizzate a Babbo Natale quindi nascondevo messaggi cifrati per i miei genitori. Chiedevo cose impossibili, irrealizzabili, ed ero fiera di farlo perché sapevo che questo avrebbe consentito loro di regalarmi ciò che decidevano loro. Quello che potevano. E la sensazione di imbustare quelle lettere pareggiava da sola la gioia che provavo poi nell'aprire un regalo.
Un giorno, sempre in inverno, eravamo in macchina tutti e tre e stavamo girando per la città. Quell'anno non eravamo riusciti a montare le gomme da neve, che costavano troppo, e quindi mio padre guidava piano piano, cercando di fare attenzione.
Entrando in un sottopassaggio la macchina è slittata via, papà ha perso il controllo e siamo andati a sbattere contro il muro. Niente di grave, andavamo talmente a rilento da non aver avuto nessuna conseguenza.
Ma la macchina era rimasta incastrata nella neve, appoggiata alla parete e non voleva saperne di ripartire.
Ero piccola, piccola davvero, e non sapevo come aiutarli.
Il ricordo di mia madre che spinge la macchina insieme a mio padre, in mezzo alla neve, per spostarla e farla ripartire mentre io me ne stavo dentro al caldo con le mani appoggiate sul finestrino, non lo cancellerò mai.
È impossibile da cancellare, non voglio questa vita per loro, questo ho pensato.
Non c'è retorica, non c'è epica o romanzo: non ve la sto raccontando.
Sono soltanto le cose che ho visto fuori e quelle sentito dentro mentre quei momenti mi passavano davanti. E nulla di tutto questo potrà mai diventare semplice cronaca, o l'esempio di quant'è difficile far quadrare i conti per una famiglia immigrata in un paese straniero.
Questa è la mia storia e questa sono io.
E i miei ricordi hanno un sapore unico, che sento solo io.
I bambini sono cattivi senza saperlo, si dice.
In Italia non esiste ancora la piena integrazione, si dice.
A qualunque offesa è bene non rispondere alzando le mani, si dice.
Ma del fatto che qualcuno possa dirti negra, oppure puzzi, oppure sei fatta con la merda, nessuno ti avvisa, perché come fai a prevederlo?
Come fai a spiegare ad una bambina che qualcuno potrebbe farlo sul serio?
Sul pullman per andare a scuola c'erano 4 ragazzi, sempre loro, che prendevano il mio zaino, lo aprivano e buttavano la mia roba ovunque, in mezzo ai sedili, mentre mi prendevano in giro pesantemente.
Non te lo dimentichi. Non te lo puoi dimenticare.
E non mi scordo neppure la frustrazione che sentivo nel non potergliele suonare, nel potermi ribellare solo a metà, perché avevo promesso ai miei genitori che mai, mai, avrei alzato le mani su qualcuno.
Non ha senso dispiacersi per le cose passate, quantomeno non quando ti sono servite ad imparare qualcosa e dalla mia infanzia io sono uscita con la voglia di non farmi mai mettere i piedi in testa, perché in questo mondo o tiri fuori i denti o ti mangiano, non esistono tavoli per due.
Quando sono arrivata alle superiori ho iniziato a capire che il volley sarebbe stata la mia strada e questo mi ha permesso di concentrare tutta la mia forza, tutte le mie voglie, dentro ad un unico obiettivo.
Un obiettivo grande a sufficienza per contenerne molti altri però:
io volevo diventare la giocatrice più forte del Mondo.
Perché la giocatrice più forte del Mondo ottiene anche tutto il resto: ottiene tutto quello che vuole. È come trovare il genio della lampada e usare il primo desiderio per chiedere desideri infiniti, le regole non lo permettono, ma ci pensiamo tutti.
La consapevolezza di non essere l'unica a desiderarlo, di non essere la sola a progettarlo mi è arrivata addosso soltanto l'anno scorso, che non ero più una bambina da un po'. Ma proprio come le cose che mi hanno colpito da bambina, anche questa mi ha fatto scattare una molla interna, e resa più forte.
Non dimenticavo da piccola, figuriamoci ora, e le accuse di doping della stagione scorsa mi hanno scosso quanto se non più degli epiteti razzisti che mi lanciavano addosso sullo scuolabus.
Una contaminazione alimentare, si è trattato di questo, nulla più.
I dubbi, leciti, di chi ha il compito di vigilare su queste cose non mi hanno disturbata.
Fatta un po' incazzare quello sì, ma li capivo.
E quando tutto si è ufficialmente chiarito mi sono sentita sollevata.
È stata la furia di certa gente a ferirmi, la cattiveria di chi si è trasformato in giudice e giuria in un semplice click. Insulti alla giocatrice, insulti alla persona, insulti alla mia famiglia.
Parole pesanti, denigratorie, lanciate nel web al costo di un semplice malinteso.
Ricordo una settimana intera passata in casa, senza uscire, a piangere sulla spalla del mio ragazzo, che mi era sempre stato vicino, che mi aiutava e sosteneva di fronte ad ogni piccola incertezza. Beh c’era anche di fronte a quella burrasca, e nella lontananza dei miei genitori lui, in quei giorni, è stato un gigante.
Io che credevo di essere sempre stata trasparente in campo.
Io che pensavo che fosse impossibile non vedermi dentro per quanto sono sincera sotto rete, dove mi agito, scalpito, grido ed esulto senza freni.
Io mi sono trovata accerchiata.
Sembrava che tutti, o quasi, fossero semplicemente in attesa di una mia caduta.
Come la gente che rallenta la macchina in autostrada per guardare da vicino il tamponamento: guarda, guarda cos'ha fatto!
E a tutti loro insieme non spetta il compito di dimostrare che tu sei colpevole, ma spetta a te, sola, dimostrare d'essere innocente.
In quei giorni mia madre si è ammalata di cancro.
E se tutta la sofferenza e lo stress che io stavo provando mentre cercavo di dimostrare la mia innocenza avessero contribuito a farla ammalare, anche solo per l'uno percento, cosa avrei dovuto pensare?
Cosa avrei dovuto sentire?
Quando mio padre si è deciso a confessarmi che lei stava male mi sono ritrovata nuovamente sulla terra. Ero triste, ovviamente. Ferita, preoccupata.
Ma quello di mia madre era un problema vero.
Quello era, ed è, un motivo valido per reagire, per combattere.
Quella è una delle cose che conta per davvero.
Ascoltare le prime telefonate con mia madre era come assistere allo scontro tra due arieti: giù di cornate a vedere chi ha la testa più dura.
Torno a casa!
Resta lì che se non ti vedo più giocare sto anche peggio!
Vedermi tornare a giocare è stata, ed è ancora oggi, parte integrante della sua cura, del suo processo di guarigione. Mi ha spinto al Mondiale e mi spinge ancora oggi.
Giocare: volevo solo giocare. Ogni giorno.
Una partita ancora.
Ancora una.
Perché sapevo che lei era davanti alla televisione a guardarmi e che farlo la rendeva più felice, almeno per due ore.
Come fanno tutti i bambini del Mondo alle loro prime partite: io volevo giocare perché la mia mamma mi potesse vedere in campo.
Credo di essere rimasta la donna di sempre in fondo anche se la buccia esterna è diventata dura come quella dei mandarini rimasta troppo a lungo sul termosifone.
All'inizio profuma, perché l'esperienza arricchisce la tua storia, ma quando ti scotti troppe volte si indurisce e non torna più alla consistenza iniziale.
Resto la donna di sempre perché la mia paura più grande è rimasta quella di immaginare la delusione sul volto dei miei genitori.
Sono sempre io, perché reagisco alle difficoltà, ma non alzo mai le mani, anche a costo di soffrirne in prima persona.
Sono sempre io perché mi ricordo tutto.
Tutto quel che ho visto e che ho pensato.
Tutto quello che ho sperato e maledetto.
E tutto quello che ricordo lo tengo dentro e lo conservo, perché la vera me, è nascosta lì nel mezzo.