Conto i passi. Sono diversi metri indietro rispetto alla linea di fondo campo, come sempre. Non guardo il tabellone. Io, il punteggio, lo so e ad esser sincero non mi fa esattamente impazzire. Guardo al di là della rete e cerco lo sguardo di chi copre la zona dove voglio battere. Lancio la palla in alto. Salto. La colpisco piena, a mano aperta. Tiro uno scaldabagno che vola dall’altra parte della rete.
La battuta è un gesto tecnico magico, perché ha regole tutte sue e non lo puoi controllare senza margine d’errore. Ne provi cento, mille a settimana, che diventando decine di migliaia nel corso di una carriera. Impari come colpire, memorizzi il movimento del braccio, studi a memoria le rotazioni degli avversari, arrivi al punto in cui le tue dita sanno riconoscere quanta aria c’è dentro al pallone, e se è poco di più o poco di meno rispetto a quello precedente. Eppure, in partita, ogni battuta è diversa. La distanza tra un ace e un errore è di centimetri. Sul campo. Il che vuol dire una differenza di millimetri nel tuo gesto. Se l’aria vibra per il calore del pubblico, se i tuoi muscoli sono leggermente in sovraccarico, se i tuoi occhi sono stanchi o appannati, se stringi troppo i denti durante il salto...la palla va dentro o la palla va fuori.
Ti accorgi subito se era quello che volevi. È quasi impercettibile, ma il tuo corpo riconosce prima del tuo cervello la perfezione del gesto, il braccio si rilassa dopo il colpo, cadendo leggero e accompagnando il pallone di là. La mia alzata, questa volta, è perfetta, esplodo sulla palla con la rabbia giusta. I muscoli del volto si rilassano e sento una scossa di piacere in corpo. Gli occhi non si staccano più dalla traiettoria. Quando atterro sono due metri dentro al campo, ma prima di poter toccare a terra con i piedi la mia palla è già arrivata.
Ace.
23 a 22 per noi. Il punto più importante della mia Olimpiade. Ho sentito l’aria invadermi i polmoni e me la sono presa tutta, respirando ad occhi chiusi e mento alto. Il nostro sport è fatto di attimi e quello è stato l’attimo che ha cambiato la nostra semifinale a Rio 2016. Gli Stati Uniti ce li avevamo avuti sotto al naso per tutta la competizione. Palazzina contro palazzina, una di fronte all’altra, sia in Brasile che quattro anni prima a Londra. Nel vedersi sempre è come se si creasse un legame, come se si maturasse la convinzione che, prima o poi, sarà noi contro di voi, perché entrambi siamo qui per vincere.
La semifinale Italia - USA è stata più un trattato di psicologia che un racconto di sport.
Primo set Italia, dopo una partenza letargica e loro che scappano sull’8 a 3. Primo set Italia, 30 a 28. Soffertissimo e con il pubblico brasiliano che gridava: “I-t-a-l-i-a! I-t-a-l-i-a!”
Secondo set, altra giostra di emozioni, in un saliscendi incomprensibile, fatto di difese eccezionali e di attacchi persino migliori. Stati Uniti 26 a 28.
E qui crolliamo. Coliamo a picco, inspiegabilmente e molto in fretta. Nel terzo set di una semifinale olimpica facciamo 9 punti. 9. Difficile persino da scrivere: n-o-v-e. 25 a 9, tra l’altro chiuso con un parziale di 12 a 0.
Nessuno avrebbe scommesso un euro su di noi in quel momento, forse neppure io.
Nel quarto siamo rimasti attaccati alla partita senza mai avere la sensazione di poterla riprendere per davvero. Eravamo come uno di quei pugili che all’ottava ripresa va giù, lo contano e si rialza solo quando l’arbitro ha quasi finito le dita. Gong, si tira il fiato, ma devi tornare a centro ring, e ti aggiri per il quadrato come se fossi in attesa del destro che finirà tutto. Noi eravamo così. 22 a 19 Stati Uniti. Vado in battuta e tutto cambia. Cinque scaldabagni buttati di là. 3 ace e le facce di tutti che raccontano una storia nuova.
Ho capito che avremmo vinto quella partita quando, sul 22 pari, ho visto la paura negli occhi degli americani. Click. Finita. Il quinto set lo abbiamo semplicemente dominato.
Nel corso della mia carriera, le battute e le serie di ace, sono state spesso lo specchio della trance agonistica. Ci sono partite, come quella semifinale, in cui mi sembra di essere in una bolla e che tutti gli altri si muovano al rallentatore. Riesco a leggere tutto con un istante di anticipo. È come se in quei momenti l’istinto, che governa sempre le scelte del campo, venisse guidato da una comprensione superiore. Il gioco diventa facile, leggero.
Tutti i grandi sportivi conoscono questa sensazione: è uno stato di flow. È impossibile ricrearlo in allenamento o in palestra perché è un allineamento degli astri, che ti parte da dentro e si sprigiona ovunque nel corpo, come la circolazione sanguigna che parte dal cuore e pompa in tutto il resto di te.
Nel volley ci sono molle che scattano senza che tu te ne accorga, perché è uno sport pieno di adrenalina, ma a cui viene negata la gioia del contatto. Non ti puoi sfogare dando una spallata all’avversario. Non puoi eliminare la frustrazione per un errore sfidando faccia a faccia qualcuno. C’è la rete, sempre e comunque. E la rete ti lascia un solo punto di contatto con i componenti dell’altra squadra: gli occhi. E allora ecco che lo sguardo vale doppio. Ecco che flusso di energia che ci si rimbalza di qua e di là diventa un’esplosione enorme che può diventare euforia o può diventare crisi nera con la stessa facilità.
Tutto questo, poi, si moltiplica anche per le condizioni esterne. Più grande è il posto in cui ti trovi e più grandi sanno diventare euforia e crisi. E nessun posto è grande quanto l’Olimpiade.
Io sono cresciuto ascoltando i racconti di papà, che dei Giochi è stato un grande protagonista. Mi raccontava delle partite e dei giocatori, ma più di ogni altra cosa mi raccontava degli uomini e delle sensazioni, in un periodo unico della storia dell’umanità. Lui vinse l’argento a Montreal ’76, poi l’oro a Mosca quattro anni dopo, nelle Olimpiadi che gli Stati Uniti decisero di boicottare. A volte mi raccontava anche del contro-boicottaggio di Los Angeles 1984 e di cosa significasse vivere e giocare in un decennio del genere.
Come nei migliori film drammatici papà avrebbe poi condiviso lo spogliatoio con un giocatore americano, a Spoleto, nel 1988, l’anno in cui, alle Olimpiadi di Seul questa rivalità infinita si concluse con la finale per l’oro vinta dagli States.
Mi raccontava di come non sapesse cosa aspettarsi dal giocare insieme a qualcuno che per tanto tempo gli era stato descritto come un nemico, oltre che un avversario. Scoprirono che parlavano entrambi la lingua del talento e si intesero a meraviglia. Uno era forte, l’altro fortissimo e il pallone finì col mettere d’accordo tutti.
Sembra quasi di leggere la fine di un romanzo nel guardare la mia data di nascita. 2 ottobre del 1988, giorno della finale olimpica di Seoul: Stati Uniti 3, Unione Sovietica 1.
Per tutti questi ricordi, io sono cresciuto con il mito dei Giochi. I Giochi sono grandi. Nulla conta più dei Giochi, perché l’Olimpiade è l’Olimpiade.
Quando finalmente sono arrivato a bussare alla porta dei miei primi Giochi, sono stato profondamente deluso da quello che ci ho trovato dentro. Bisogna stare attenti a voler raggiungere i propri miti, perché toccandoli si rischia di farli cadere. L’edizione di Londra 2012 mi ha lasciato un retrogusto strano, quasi amaro, in bocca, figlio delle mie aspettative e di quello che avevo immaginato per anni. È stato un torneo lungo, che ha richiesto grande abnegazione e fatica, che ho vissuto in un Villaggio spoglio e semplice. Era come se il mio cervello fosse in costante attesa che qualche cosa trasformasse tutto. Qualcosa che mi trasportasse in un ambiente diverso. Qualcosa di straordinario che piovesse dall’alto facendomi capire cos’erano davvero le Olimpiadi. Ma non accadde nulla.
Poi, quattro anni dopo, Rio, mi ha restituito tutto quello che sentivo di aver perso. Tutto in Brasile pareggiava i miei desideri. Il Villaggio Olimpico si era trasformato rispetto all’edizione precedente. Ogni giorno trascorso lì aveva il sapore di un giorno speciale e in mensa ero eccitato dall’idea di incrociare i grandi campioni della mia epoca.
E c’era Bolt, e c’erano Phelps e Nadal.
Tutto era enorme. Nella mia testa e fuori. Ma, con l’avvicinarsi della fine del torneo, con le emozioni delle ultime partite, mi sono reso conto che non era l’Olimpiade ad essere cambiata, ma ero io. Non stavo più vivendo l’attesa di un qualcosa di ultraterreno e indescrivibile, che le storie del passato mi avevano fatto immaginare, mi stavo finalmente godendo il presente, e il momento più alto che ogni atleta possa mai desiderare. Da protagonista.
Perché per scrivere la propria storia non basta conoscere le parole giuste, ma serve sentirle vere, per davvero e per sempre.