Cento metri possono esser tanti oppure esser pochi.
Dipende, non esiste una definizione universale.
Per coprirli servono circa una novantina di passi per un uomo adulto, ma per un bambino, cento metri, sembrano un’enormità.
Impossibile percorrerli tutti d’un fiato.
Per due vicini di casa che si stanno antipatici cento metri sono decisamente troppo pochi. Ma per due persone che si vogliono bene e che vorrebbero abbracciarsi il più in fretta possibile, diventano più larghi del Gran Canyon.
Quando ci si diverte, il tempo scorre veloce mentre quando si è annoiati molto meno, e alla stessa identica maniera cento metri possono diventare una passeggiata sotto al sole, per chi sta andando da qualche parte, o un fastidioso problema per chi è obbligato ad andare da qualche parte.
Per me, cento metri, sono stati un’illusione.
Un’illusione in cui sono stato bravo a non cascare.
Quando sono arrivato nelle giovanili della Juventus, la mia prospettiva di futuro ed il mio rapporto con il pallone sono radicalmente cambiati.
Dal paese alla città.
Dal gioco al sacrificio.
Dal divertimento e basta al divertimento e fatica.
Il mio approccio al mondo del calcio non è stato diverso rispetto a quello di milioni di altri piccoli italiani nel corso delle generazioni. Il nostro Paese respira al ritmo del campionato e un periodo di forzata assenza ci ricorda, tra le tante altre cose importanti, quanto ci piace appassionarci allo sport.
© Paolo Miccoli - Getsportmedia
Io ho iniziato da piccolissimo, per seguire le orme di mio fratello maggiore, e questa, devo dire, è un’abitudine che faccio fatica a perdere anche ora.
Per referenze date un occhio al mio libretto universitario, stessa facoltà e stessi interessi.
Sono tre anni più piccolo di lui e pur di stargli appresso, come la colla moschicida, ho bruciato tante piccole tappe dell’infanzia, perché le dovevo fare quando le faceva lui.
I primi giri in centro la sera, le gitarelle e, ovviamente, il calcio.
Mi ricordo perfettamente il giorno del mio primissimo allenamento.
Avevo 4 anni ed era l’11 settembre del 2001.
Ero seduto sul divano, vestito di tutto punto e ansioso di giocare per la prima volta, quando gli aerei dirottati nell’attacco al World Trade Center di New York sono comparsi sullo schermo di tutte le emittenti italiane.
Non avevo alcuna percezione della gravità del momento, della portata di una giornata che avrebbe cambiato il futuro di tutti, ma non potrò mai dimenticare la tensione negli occhi di mia madre, la sua incertezza e il tono particolarmente accurato con cui mi parlò, quel pomeriggio.
Come forse accade a tutti i bambini di fronte alle grandi vicende della vita, quando sono arrivato al campo tutta la tensione è sparita dietro a quel pallone più grande di me, che cercavo a tutti i costi di acchiappare.
Mi innamorai della palla e lasciai gli adulti a preoccuparsi di tutto il resto.
La cosa più bella della mia primissima squadra, il Fanella, è che in quella società non esisteva la prima squadra.
Solo giovanili.
E solo nelle giovanili si può assaporare il vero piacere di fare sport.
Non c’era nessuno da guardare, dopo il nostro allenamento, nessuno da imitare o da idolatrare. Soltanto il campo e i compagni con cui giocare.
Qualche anno dopo, quando sono arrivato al Rimini, che militava in serie B, questo modo di vivere il calcio mi è sicuramente tornato utile, perché non guardavo mai troppo oltre.
Certo, lavoravo duramente, perché stare in campo era ciò che mi divertiva di più, ma non ho mai sentito il bisogno di sognare in grande per forza. Anzi.
© Paolo Miccoli - Getsportmedia
Il mio interruttore è scattato a 14 anni, quando sono arrivato alla Juve.
Lì ho capito che sarei potuto diventare qualcuno.
Lì, a dire il vero, ho anche capito che mi sarei anche potuto perdere, perché a quell’età tutto diventa feroce e iper competitivo.
Spesso si legge di sportivi costretti a lasciare presto la casa dei genitori per andare in un settore giovanile prestigioso. Il punto è: che andare via a 14 anni non significa nulla di per sé, perché lo fanno tutti.
La differenza la fa il modo in cui lo fai. A qualunque età.
Il modo con cui fa le cose cambia la percezione di quello che ti circonda e, spesso, per crescere, non basta l’impegno.
Bisogna anche trovare qualcuno che abbia la voglia di credere in te.
Nelle giovanili, certo.
Ma non solo.
Perché anche quando grande lo sei diventato già da un po’, può capitare di vivere gli alti e bassi tipici di un mestiere complesso, come quello del difensore.
Per migliorare serve un ambiente capace di tirare fuori il meglio da te, ed è questo che ho trovato a Sassuolo. Un pezzetto d’Italia unico, dove è ancora possibile fare calcio per bene.
Bisogna dirlo: il talento c’è o non c’è, su quello puoi farci poco; ma nel momento esatto in cui credi di essere arrivato da qualche parte e alzi il piede dall’acceleratore ti superano a decine. E ti accorgi, forse per la prima volta, che quel desiderio forte che senti, non sei il solo ad averlo.
Esiste una grande, grandissima verità, che si apprende in quei momenti; uno spartiacque enorme, che divide tutti i giovani calciatori, determinando chi l’ha capita e chi invece no: la maglia di un settore giovanile prestigioso, resta pur sempre una maglia di settore giovanile, il calcio dei grandi è ancora molto distante.
Alla Juventus, noi ci allenavamo a Vinovo e, spesso, incrociavamo la prima squadra, che preparava le sue partite solo 100 metri più il là.
In quei momenti il tuo cervello vuole fortemente credere che sia esattamente quella la distanza che ti separa dal tuo grande obiettivo.
Ma non è così, perché in mezzo ci saranno ancora tantissima gavetta, sacrifici e anche un po’ di fortuna.
Ed è stato sempre lì che ho imparato a calcolare i miei personalissimi 100 metri, e ho imparato che a volte la vicinanza può anche essere un’illusione.
Proprio come scrivono sugli specchietti delle macchine:
Le cose che vedi potrebbero essere più vicine (o lontane) di quello che pensi.