Kjetil André Aamodt ha avuto una carriera straordinaria, in cui ha vinto tantissimo.
Una di quelle bacheche scintillanti che ti fanno pensare, che ti fanno credere con assoluta certezza, di trovarti di fronte ad un atleta che ha sempre raccolto il massimo dal proprio talento.
Eppure, una volta, lo sentii dire che era contento soltanto del dieci percento di tutte le gare che aveva fatto in carriera.
Nel restante novanta percento era insoddisfatto di come avesse sciato.
Il dieci percento.
Il dieci percento su centinaia di gare, di uno dei campioni più amati e vincenti della storia dello sci.
Questo da l’idea di quanti siano in realtà i giorni in cui non riesci ad esprimere appieno quello che hai dentro.
Infortuni, fatica, viaggi, imprevisti, è come se tutto, contemporaneamente, ti sfidasse.
E ti ritrovi costretto a vivere sulla montagna russa dei tuoi perchée dei tuoi come, durante il corso dell’intera stagione.
Quando guardi dentro ad un viaggio unico, come il mio e come il suo, quando giri lo sguardo e osservi la traiettoria che hanno disegnato i passi che hai fatto, è facile pensare che tutto fosse già scritto.
È semplice cadere nel tranello di credere che i risultati fossero solo un’inevitabile conseguenza:
Con quel talento lì!
Ma quando vivi un’esperienza del genere per davvero, giorno dopo giorno, ti rendi conto di quanto ogni singolo scalino sia scivoloso, quasi ghiacciato, e di quante volte vorresti mollare e alla fine non lo fai.
Ti rendi conto di quanto sia difficile vivere con le ambizioni di tutti specchiate sulla tua figura, alla costante ricerca di quello che c’è dopo, gara dopo gara.
Dici a te stesso: l’ambizione non può essere un peso.
Perché non sai quanto pesa.
Forse è per questo che di tanti anni di carriera, di tanti successi e di medaglie, la mia memoria preferita, la cosa a cui ripenso con l’amore più grande, è la primissima convocazione in nazionale.
Era il 2001, avevo appena diciotto anni, e quel ricordo è così bello che racchiude in sé la forza di un momento e, allo stesso tempo, la luce di un periodo.
I componenti della squadra norvegese della Coppa del Mondo erano i miei idoli e dopo un solo, misero, giorno di allenamento mi potevo già sedere al tavolo con loro. Ero uno di loro.
Potevo parlarci, fare delle domande.
Anche in un quindicennio come quello che ho vissuto io, quell’istante resta il più nitido di tutti, il più grandioso, perché non aveva nulla a che fare con il successo o con i risultati, ma con la pura e semplice gioia di appartenere.
Appartenere a qualcosa di divertente e di bellissimo.
Qualcosa che mi avrebbe definito e fatto diventare un l’uomo che sono oggi.
Al mio arrivo nella Coppa del Mondo ho potuto contare sul giusto mix di meriti e di fortune, perché i veterani di quella squadra erano dei veri maestri nel creare lo spirito di gruppo e mi hanno mostrato l’importanza di avere un team affiatato e con l’equilibrio perfetto di allegria e fatica.
Sapevano divertirsi, quando era il momento.
E il divertimento serve perché ci sono weekend, gare, appuntamenti internazionali in cui la pressione è talmente pesante che solo un attimo di leggerezza la può frantumare.
Al mio arrivo nella Coppa del Mondo ho potuto contare sul giusto mix di meriti e di fortune, perché i veterani di quella squadra erano dei veri maestri nel creare lo spirito di gruppo e mi hanno mostrato l’importanza di avere un team affiatato e con l’equilibrio perfetto di allegria e fatica.
Sapevano divertirsi, quando era il momento.
E il divertimento serve perché ci sono weekend, gare, appuntamenti internazionali in cui la pressione è talmente pesante che solo un attimo di leggerezza la può frantumare.
Sono stati loro a dimostrarmi con i fatti che nello sport la cosa più importante di tutte è essere sinceri, perché, nel circuito, questo è il solo modo di vivere una vita felice.
Se provi a mostrare un carattere diverso da quello che hai agli altri, che siano i compagni, il pubblico o la stampa, prima o poi, sbagli e ti consumi.
Le bugie sono molto più complicate da ricordare della realtà.
Soprattutto nello sci.
Passare il tempo nel circuito è come vivere in un academy che non finisce mai, una sfida in cui devi dimostrare quello che sai fare ogni volta che agganci gli scarponi.
E quando il giorno finisce, arriva la sera e metti la gambe sotto al tavolo, non puoi non riconoscere in chi ti sta di fronte lo stesso identico sforzo.
Così nasce il rispetto, che poi ti porti in pista.
Nello sci non puoi mentire perché durante la gara sei nudo.
Anzi sei il solo ad essere nudo, mentre tutti sono vestiti.
Sfrecci a130 chilometri all’ora e quando passi il traguardo, nei due secondi che ti servono per frenare, fermarti e toglierti la mascherina, sei la sola persona al mondo a non sapere il tuo risultato.
Lo sanno i compagni, lo sanno gli avversari, gli spettatori e i commentatori tv.
Lo sanno tutti prima di te.
Ed è quando la verità ti arriva addosso, sotto forma di lucina rossa o lucina verde, che tutti vedranno se sei un buon perdente o un cattivo perdente.
Un buon vincente oppure no.
Non ti puoi nascondere.
Mai.
Questo rende unico lo sci.
Questo ha reso il mio viaggio indimenticabile e dolcissimo, a dispetto degli infortuni, delle difficoltà e dei giorni in cui, semplicemente, non riuscivo a non pensare che tutto sarebbe andato di merda.
Ma quando sei sincero, i conti tornano sempre, perché la sola persona con cui dovrai mai discutere sei tu, e niente potrà mai valere a sufficienza da dirti una bugia, anche quando gli altri la credono una verità.
Mi sono ritirato solo quando ero certo di volerlo fare, quando avevo consumato anche l’ultimo un percento di voglia di restare nel circuito, consapevole che qualunque strada percorrerò mai nella mia vita, non potrò più essere il campione olimpico o il migliore al mondo in qualcosa.
Quello che ti porti via dallo sport va ben oltre il palmares e le emozioni della pista.
Va oltre il dieci percento, o poco più, di giorni in cui hai sciato come un dio.
Quello che ti porti via dallo sport è irripetibile, ed è la somma di tutte le esperienze che vivi, che sono talmente reali e uniche da formare un dono, e diventare esperienza di vita.