Non c’è pace senza guerra, e io non riesco a nuotare nel silenzio.
Mi serve uno scopo, mi serve un bersaglio, il clamore di un urlo.
Mi serve l’adrenalina, che sul blocco, per gli altri, diventa paura mentre per me invece è adrenalina e basta.
Sono un animale da gara, e quando sento “a posto” la motivazione la trovo dove voglio. Faccio la gara che faccio sempre, in cui prendo a testate l’acqua nei primi 50 metri, ignorando tutto quello che mi circonda.
Sono forte, grosso, lei mi accoglie tra le sue braccia e poi mi rimbalza fuori.
Ancora e ancora.
Meno tempo ci sto e meglio sto andando, meglio sto andando e meno tempo ci sto.
Tocco, mi giro, spingo sulle gambe e poi finalmente, dopo la virata, arriva il dolore, ma è un dolore buono.
È il male della progressione, quello della resistenza alla velocità.
Una specie di abbraccio intorno ai muscoli, sempre più stretto, come un boa, che in un crescendo perfetto ti porta all’esaurimento, fino all’ultima bracciata, che non è solo l’ultima della vasca, è proprio l’ultima che hai.
Il fisico ha una memoria, ed è fatto esattamente di ciò che ci metti dentro.
Allora io voglio abituare il mio alla sensazione del limite, l’orlo del precipizio, petto contro petto con la fatica più pura, perché quando si sente così, il mio corpo si arrabbia, e non accetta di accontentarsi.
Diventa migliore.
Se lo guardi da fuori, il nuoto è facile: devi solo andare dal punto A al punto B il più velocemente possibile. È il grande vantaggio di avere qualcuno che parla per te, qualcuno, fatto di minuti e secondi, che gli altri non possono smentire, e che si pronuncia alla stessa maniera in ogni angolo del Pianeta.
Gli ultimi tre anni mi hanno cambiato.
Mi hanno cambiato parecchio.
A raccontarli oggi, comodo dentro un record italiano e una qualifica olimpica, è più semplice dar loro la forma di una scoperta, di una conquista. Quasi una fiaba.
Ma non essendo davvero una fiaba, io non la racconto né dall’inizio, né dalla fine: parto da metà.
Assoluti di Riccione, Dicembre 2019.
Prima di partire avevo un’idea, e la tenevo tutta per me. Era la stessa idea che sono certo avesse anche il mio allenatore, ma non c’era bisogno di dirsela a vicenda per sapere che esisteva. Lui sentiva la mia e io sentivo la sua.
L’idea parlava di libertà, parlava di muri da abbattere, raccontava di come dovessi riprendere il filo con una gioia perduta e mai più ritrovata, che in acqua c’era e non c’era, come la corrente che continua a saltare anche quando la tempesta è finita da un pezzo.
58 secondi e 75 centesimi.
Record italiano, barriera dei 59 secondi frantumata e pass per le Olimpiadi di Tokyo in tasca alla prima occasione utile.
Non mi sono mai sentito così dopo una gara.
Ho esultato, ho gridato, mi sono battuto il petto, perché finalmente avevo rivisto un volto famigliare.
I due anni precedenti era stato come perdersi nella casa degli specchi al Luna Park, perché continuavo a girare l’angolo e a ritrovarmi di fronte un’immagine distorta di quello che sono.
Ero sempre io, ma qualcosa non quadrava.
E quando sul fondo della vasca di Riccione ho finalmente riconosciuto me stesso, ho capito che non sarei più tornato indietro.
A dar aria ai polmoni ci vuole poco, e poi quelli dei nuotatori sono anche piuttosto allenati. Il mio 2018 era stato tutto un “magari”, un ingorgo di “vedremo” e di “chissà” che mi avevano intasato le gambe, le braccia e la testa.
Avevo chiuso la stagione precedente alla grande, stampando due Ori mondiali e due record del Mondo juniores, nei 50 e nei 100.
Sentivo di avere orizzonti di grandezza davanti a me.
Poi è arrivato l’infortunio.
Un infortunio strano, inusuale, per cui non sembrava esserci una bussola, un percorso riabilitativo prestabilito e uguale per tutti.
“Frattura da stress al pube”: così 5 parole hanno racchiuso un miliardo di dubbi, che mi sono trascinato addosso per più di 8 mesi.
In molti hanno detto la loro, forse anche a ragione, di sicuro non sapendo granché e saltando a conclusioni frettolose e sommarie.
Ero stato la grande promessa, e di colpo non ero più niente, se non un punto interrogativo, che si sperava sarebbe ritornato in acqua, prima o poi.
“Chissà se Tete torna”: l’incertezza degli altri era anche l’incertezza mia, che ho trovato un punto d’appoggio solo quando ho iniziato a fidarmi delle persone che mi stavano aiutando.
Ho provato a mettere il silenzioso alle notifiche dei tuttologi, gli esperti di tutto e appassionati di niente che abitano le stanze del nostro sport, e ho deciso di vivere a stretto contatto con la mia adolescenza.
Era l’anno della maturità e mi sono goduto appieno il ritorno a una normalità talmente antica che non sono neppure sicuro che fosse un vero ritorno. Una vita intera passata nuotando, l’avvenire in tasca, ed io che mi emozionavo perché per la prima volta avevo delle serate libere per stare un po’ con gli amici di sempre.
Ero lontano e vicino da tutto.
Lontano e vicino dalla vita normale, lontano e vicino dal nuoto.
Così, quando sono tornato in vasca, tutto era come prima e niente era come prima.
La vasca era lunga uguale, ma io ero molto diverso.
Spesso venivo etichettato come il ragazzo immaturo, a cui piaceva divertirsi la sera piuttosto che lavorare al mattino.
Certo, le mie cazzate le ho fatte, come tutti quanti, ma non è per quello che devo essere giudicato. Dovrebbe contare solo quello che faccio oggi, nient’altro.
Solo il mio tempo, solo la gara, il resto dovrebbe essere soltanto affar mio.
Per tutto il 2019 ho lottato con la sensazione che mi stessi allenando bene ma che mancasse qualcosa per esprimere tutto quello che avevo nel motore, e questo non ha fatto che dare voce al frastuono di sottofondo.
Tutti vogliono sentirsi a posto con la propria coscienza, io non faccio eccezione, e chi lavora con me sa quanto dolore io sappia buttare in ogni allenamento.
Eppure ci sono dei limiti, che ogni atleta sente di avere dentro, e sono i confini del proprio spazio, l’inviolabile sacralità delle proprie opinioni.
Per qualcuno la gara è il giudice e il boia di una carriera intera: se vado forte non mi puoi dire niente. Niente.
Perché niente è quello che sai su come funziona il mio equilibrio personale, quello stesso equilibrio che mi ha condotto fin qui e che mi ha fatto andare forte oggi.
Per altri atleti invece è l’approccio la cosa importante, dimostrarsi reperibile ogni giorno, a bordo vasca, costruendosi la reputazione del grande lavoratore, in modo di togliere dalla gara la pesantezza del giudizio.
Non ho mai amato le mezze misure, ma in questo caso credo che la risposta si trovi esattamente lì.
Da piccolo cavalcavo l’onda del talento, ed era più facile essere diverso dagli altri, quand’ero fuori dall’acqua. Oggi è più complesso, l’aria è talmente rarefatta che è ovvio che sia l’allenamento a portarti fin lassù.
Chiunque creda alla storia del campione che non ha bisogno di allenarsi è un pazzo perché dietro i risultati di qualsiasi nuotatore c’è una fatica infinita e una cura del dettaglio da perdere il sonno.
Però poi conta la gara.
Sono quei 100 metri a dire chi sei, la gloria nasce e muore lì.
Vivo, viviamo tutti, per cercare quell’attimo e quando senti gridare “uuuh” dagli spalti dopo lo start sai che il come e il perché non contano più niente.
Fare il record, ottenere il pass, è stato come togliersi dalle spalle uno zaino enorme, che mi trascinavo fin dall’infortunio, e che i mesi avevano riempito di chiacchiere, di dubbi e di incertezze.
Dopo l’esultanza è calato un silenzio di pace, tanto fuori quanto dentro la mia testa, perché per tante, troppe volte non ero riuscito ad abbassare quel tempo, ed avevo iniziato a chiedermi se fossi arrivato al mio limite strutturale.
Avevo iniziato a domandarmi se davvero il mio corpo non potesse andare oltre.
Poi all’improvviso Riccione, ed ecco lo sblocco mentale, in cui tutto si è allineato in un attimo di comprensione.
Tutta la riabilitazione, tutto il lavoro, tutto il mio modo di vivere il nuoto.
Sarà forse banale da dire, ma è come se tutto quello che ho vissuto prima, nel bene e nel male, fosse finito schiacciato dentro ad un imbuto gigante, per poi condensarsi in una cosa densa, dandomi una conoscenza nuova.
Ho sempre saputo che nuoto per me stesso, e per nessun altro.
Ma ora non lo “so” e basta, lo sento anche.
Lo faccio per me, per il mio divertimento, per le mie speranze e sogni di gloria.
Senza asterischi, senza preoccupazioni, né paure.
Perché nessuno pagherà mai il prezzo degli errori che faccio io, o salirà sul podio al posto mio.
Il futuro è un’interpretazione del presente, che si costruisce a forza di opinioni e di idee. Non riguarda gli altri, né ora né mai.
Qualcuno troverà sempre qualcosa da ridire, è nella natura delle cose.
Come quando, a inizio anno, ho deciso di lasciare la Polizia, rinunciando a tante certezze. Non tutti ne hanno capito le ragioni, quasi nessuno ha visto il coraggio di una scelta che mi obbligherà per sempre a prendermi cura della costruzione del mio domani.
Non riuscivo a vedermi tra le loro fila nel post carriera, ed è proprio perché sono grato a loro e a quello che hanno fatto per me, che ho scelto di cambiare. Non avrei mai potuto scaldare una sedia, o aspettare la fine della carriera per congedarmi e salutare.
Cosa farò dopo è ancora un enorme boh, ma quando avrò un desiderio più grande del nuoto, sarà una scelta semplice da fare.
Oggi tutto questo è leggero per me.
Leggere le aspettative e leggere le chiacchiere.
Leggero il futuro e leggera la fatica.
Perché dentro 100 metri non c’è nient’altro che la mia testa, attaccata al mio corpo, che cerca di andare il più velocemente possibile da un punto A ad un punto B.