Molti dei principali ricordi che ho sono legati alle gare di sci, ma uno in particolare che mi piace molto è stato quando avevo 14, 15 anni e per la prima mio padre mi ha fatto guidare la sua macchina. Ho sempre amato guidare, ma non mi è mai stato permesso di farlo prima.
Stavamo tornando dalle montagne di Banff, sulla sua vecchia Cadillac e ho guidato fino a casa: un grande viaggio in autostrada. Mi sono sentita responsabile di riportarci indietro sani e salvi. È stato il mio primo assaggio di velocità.
Ero un tipo diverso di adolescente.
Sicuramente non una brava studente.
Sicuramente non una persona festaiola.
Ero sempre molto concentrata: volevo davvero andare alle Olimpiadi ed essere la miglior atleta che potessi essere. Ho iniziato a sciare a nove anni e ho pensato: "questo è il motivo per cui andrò alle Olimpiadi".
Poi, a 16 anni, ho capito che non ci sarei mai andata per le gare di sci, perché non avevo la capacità di essere senza paura, almeno nello sci.
Può suonare strano, lo so.
Ma nel bob non hai scelta, non puoi tirare i freni mentre scendi in pista. Nello sci, invece, puoi controllare, puoi rallentare, e dopo diverse cadute e infortuni, non ho avuto la capacità di lasciarmi andare e di mettermi alla prova. Quindi, ho smesso.
I miei genitori sono stati bravissimi: mi hanno permesso di arrivare a quella decisione da sola. Non ho sentito pressioni da parte della famiglia, degli amici o di chiunque altro. Avrei potuto continuare se avessi voluto, e loro mi avrebbero supportato in ogni caso, ma ho fatto la scelta da sola e ho capito che dovevo essere onesta con me stessa.
Ho un futuro in questo sport?
Perché sto lavorando così duramente?
Ne sarebbe valsa la pena?
E più ci pensavo, più la risposta era no, anche se sapevo che non volevo rinunciare allo sport. Ad ogni modo, penso davvero che il tempo passato a sciare mi abbia aiutato a diventare una delle migliori bobbiste perché essere in grado di leggere un percorso, vedere le linee, sceglierne una, e riuscire a raggiungerla, sono cose difficili da fare. Le cose ti arrivano veloci e devo sentire il percorso, anche se lo devo fare con le mie mani invece che con i miei piedi e i miei stivali.
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Mi sono sempre sentita piena di passione ed ero sempre disposta a dedicarmi e lavorare sodo e cercare di essere la versione migliore di me stessa. Avevo solo bisogno di trovare un'altra strada. Cresciuta a Calgary, avevo sotto al naso la pista di bob dei Giochi del 1988 e la maggior parte dei bobbisti che incontravo erano persone molto forti e molto atletiche.
In loro riuscivo a identificarmi! Fin da adolescente, ho sempre avuto le gambe molto grandi. Quindi, mio padre mi ha portato al reclutamento e da lì sono stato invitata a provare con la squadra nazionale. Nel giro di un anno ero stabile tra le convocate e nel giro di tre ho partecipato alla mia prima Olimpiade, che è stata a Torino, in Italia, nel 2006.
Tutto è andato al proprio posto: ho trovato la mia passione.
Mi sono innamorata della possibilità di essere grande. Lo sport in quanto tale, a volte, mi spaventa a morte: l'amore per lui è venuto grazie agli anni di fatica e alle persone che ho incontrato. Ci sono momenti di dubbio, perché questo sport è molto impegnativo e difficile, ma c'è qualcosa che continua a riportarmi da lui. Ho imparato nel tempo ad amare lo sport per quello che dà. Ma la mia prima forza trainante iniziale, quella di cui mi sono innamorata all'inizio, è stata la possibilità di essere brava in qualcosa. Potevo finalmente vedere un percorso per raggiungere il mio obiettivo di andare alle Olimpiadi. Sapevo che sarebbe stata dura ma avevo trovato un modo per esprimere il mio io più profondo. Fino al punto in cui ho iniziato a sentirmi tutt'uno con esso.
E sono diventata grande.
Il nostro non è uno sport facile e ci sono molte cose, dal primo passo fino al traguardo, che potrebbero andare storte. E se qualcosa va storto, potrebbe finire con la morte. In ogni gara, ci sono molte opportunità di fare molti errori.
Sto inseguendo qualcosa di impossibile da ottenere perché non esiste la corsa perfetta. Tuttavia, la inseguo ancora. Lavoro duro per questo.
So che potrebbe anche non succedere mai, di avere il giorno perfetto, quello senza sbavature, ma posso comunque godere di piccoli istanti di perfezione passeggera, e quando succede pura gioia.
Ho fatto un paio di gare cosi, in cui tutto sembra facile
All'inizio, per i primi 50 metri, quando spingi, ogni singolo passo è potente, dinamico. Stai spostando un oggetto molto pesante molto velocemente e sai che stai diventando sempre più veloce, ed è il tuo stesso corpo a farlo e questo ti fa sentire enorme.
Salti sul bob e poi guidi.
Puoi sentirlo diventare più veloce.
Puoi sentirlo accelerare.
Quella sensazione di pressione ti mette nella posizione perfetta per entrare nella curva successiva e rende facile guidare. Devi a malapena girarlo e senti che accelera. Quella sensazione è ciò che insegui costantemente.
Non sempre è così e a volte ti ritrovi a combattere con il bob e con la pista per tenere la traiettoria che hai in testa. Il bob sbatte di lato e la coda scivola perché la pista sta cercando di farti fare cose che non vorresti.
E poi, altre volte ancora, tutto avviene semplicemente senza sforzo. E quella sensazione di disinvoltura, quella sensazione di velocità e vento rende ogni curva così liscia: questo per me è ciò che si avvicina di più ad una corsa perfetta.
Poi tagli il traguardo e lo sai, senza neppure guardare il cronometro. Sai che ci sei riuscita. Sai che hai fatto la corsa migliore e ti sei messa nella posizione migliore per essere la più veloce. Superare quel limite e sapere di aver fatto tutto come dovevi: questo è ciò che insegui in questo sport.
Ho avuto una lunga carriera. So che c'è di più che voglio fare, ma sono già molto soddisfatta di ciò che ho realizzato. Se me ne andassi domani, sarei felice. Ma ho ancora obiettivi, speranze e sogni, e voglio partecipare a creare un futuro migliore per gli atleti. E penso che il modo migliore per farlo sia competere ancora.
Dal 2006 al 2026: voglio iniziare e terminare la mia carriera in Italia.
Una carriera olimpica di 20 anni, che mi sembra perfetta, soprattutto dopo quello che ho dovuto affrontare negli ultimi anni.
È stato molto difficile lasciare il Team Canada. Ho avuto una carriera di 16 anni con loro, ma sapevo di non essere fisicamente al sicuro in quell’ambiente e dal punto di vista mentale non sarebbe stato possibile per me stare lì.
Ed è stata una posizione difficile in cui trovarmi perché ho dovuto scegliere di tutelare la mia salute e sicurezza quando le persone che avrebbero dovuto occuparsene, non l'hanno fatto. Ho dovuto rischiare di porre fine alla mia carriera e davvero non potevo sapere se, quando ho presentato la mia denuncia per abusi e molestie, che era quello che sarebbe successo.
L’avevo già visto succedere a molti altri atleti di altri sport in Canada.
Ho visto molti atleti difendersi da soli, e quando lo fai, finisce la tua carriera.
La minaccia fisica della violenza.
Cosa sarebbe successo se mi fossi difesa da sola anche io?
Se avessi detto: “È così che mi sento e so che non puoi trattarmi in quel modo” cosa mi sarebbe successo? Mi avrebbe rotto la mascella, cosa che è successa ad un’altra atleta per mano del mio allenatore dell’epoca?
Era stato arrestato per aggressione. Mi aveva già messo le mani addosso in precedenza e ho dovuto allontanarmi in fretta da quella sensazione spiacevole di essere un’atleta donna accanto a un uomo molto grande e intimidatorio, che proviene da un background di combattente.
Costantemente mi dicevano: “non sei abbastanza brava”.
Lo facevano davanti al resto del mondo, davanti ad altre persone, quando tutto quello che cercavo di fare era essere il meglio di quel che potevo essere. Mi sentivo dire che non ero meritevole e che solo lui poteva rendermi migliore, e poi finivo in lacrime, non sapendo se fisicamente o mentalmente ce l’avrei fatta a reggere un giorno ancora.
E quando ho provato a dire qualcosa, le persone a capo della federazione che erano lì mi rispondevano: “ci, dispiace, non cambierà nulla”.
Poi ho iniziato a temere per la mia incolumità fisica. Avevo eruzioni cutanee su tutto il corpo, soffrivo di mal di testa ogni giorno sono andata a farmi visitare da un oculista. Sono andata a farmi fare la scansione cerebrale da sola perché nessun altro l'avrebbe fatto o avrebbe pagato la visita o mi avrebbe aiutato a organizzare riunioni o appuntamenti.
"Forse ho una commozione cerebrale".
Ho cercato di trovare ogni possibile risposta su cosa potesse essere ma era tutto negativo. Eppure mi sentivo a terra, sapevo che qualcosa nel mio corpo non andava a causa del modo in cui venivo trattata e dello stato mentale in cui mi trovavo. E quando ho iniziato a riconoscerlo, sono andata da uno psicologo sportivo. Ho iniziato a parlare con le persone e ho capito che più ne parlavo, più facile diventava l'elaborazione. E la comprensione dei problemi fisici che stavo avendo, dei mal di testa.
Ho iniziato a curare la mia depressione e le eruzioni cutanee che avevo sul corpo, poi ho dovuto imparare a convivere con gli attacchi di panico, che mi prendevano quando pensavo di tornare a fare sport.
Solo quando sono stata in grado di dargli un nome e di parlarne con qualcuno al di fuori dello sport ho iniziato ad affrontarlo.
E ho capito che dovevo andarmene.
Sapevo che non potevo restare in silenzio.
Non potevo non dire niente, e poi dieci anni dopo, farmi dire da un'altra donna: “Sono stata maltrattata verbalmente o mentalmente. Mi sentivo insicura Perché qualcuno non ha detto qualcosa.?”
Avevo bisogno di scappare non solo da questo allenatore, ma anche da un ambiente che stava mettendo in pericolo gli altri atleti. E così facendo, sono diventata impopolare. Sono stata chiamato con tutti i nomi possibili. Sono stato un traditrice per tre anni, su tutti i social media. Ma per me, era la cosa giusta da fare.
Ed è qualcosa che mi auguro che ogni atleta o ogni studente faccia. Se sei vittima di bullismo, se ti senti minacciato o insicuro, allontanati, lascia l'ambiente e circondati di persone che ti supportano.
Mettiti in un ambiente sicuro.
Non limitarti a restare.
Per farlo ho dovuto rischiare di rinunciare a un'Olimpiade.
Non sapevo se avrei ottenuto la cittadinanza in tempo per competere per il Team USA, probabilmente avevo meno dell'1% di possibilità che ciò accadesse.
Ma è successo, e ne sono incredibilmente grata.