Il cervello umano sviluppa l’80% del proprio volume durante il primo anno di vita, lasciando che sia il contorno dei tuoi primi 12 mesi sulla Terra a determinare gran parte del carattere che avrai in futuro.
Tutto prende forma lì, quando sei ancora incapace di camminare e di parlare.
Mentre dipendi ancora dall’affetto degli altri, anche solo per sapere che esisti.
Chiunque, ovunque, ha un controllo pressoché nullo di ciò che lo circonda in quella fase della crescita, e a determinare dove vieni al Mondo è una semplice lotteria, in cui tutti sono spettatori.
O quasi.
Io sono diventato grande in un ambiente virtuoso, di quelli che è sempre più difficile trovare. Ricordo le domeniche pomeriggio passate nel nostro piccolo appartamento in Sudafrica, con la mamma in cucina, papà alla griglia e io e mia sorella intenti a giocare.
La musica la sceglieva sempre papà, con una ben definita predilezione per il soft-rock degli anni ‘80, come i Dire Straits, che ancora oggi, quando sento passare in radio le prime note di “Sultans of swings” qualcosa dentro al mio stomaco si muove e a me sembra di tornare bambino.
Non eravamo una famiglia ricca.
Non eravamo una famiglia povera.
Felici loro e felici noi: eravamo una famiglia e basta, in un’epoca in cui fare figli non era ancora un conto matematico, una valutazione economica da bilanciare con cura.
Quella di mio padre e mia madre è stata l’ultima generazione dell’Occidente a sentire la necessità di diventare genitori come semplice conseguenza dell’essere al Mondo e dell’amarsi. Per il desiderio di andare avanti e di scoprire cosa ci sarebbe stato dopo. E noi, cresciuti in un ambiente il cui mantra era: “se vuoi fare qualcosa per migliorare la vita degli altri, vai a casa e ama la tua famiglia” di quella sensazione, ci riempivamo i polmoni.
La sola preoccupazione era scoprire quanto prima quale sarebbe stato il menù del prossimo pasto, e andava benissimo così.
Niente di più.
Niente di meno.
© Colombo
Nell’arco di circa 10 miglia abitavano 5 o 6 nuclei diversi della nostra famiglia, che così formavano una città nella città: un luogo tutto nostro che prendeva vita soltanto nei fine settimana, quasi per magia.
Quello non era il “lato italiano” della mia famiglia, ma nelle nostre abitudini del tempo rivedo molto del modo di fare degli italiani, sempre preoccupati di aver messo abbastanza cibo sulla tavola per soddisfare gli ospiti e, soprattutto, i parenti.
“Bring and share”: lo chiamavamo così.
Tutti cucinavano qualcosa e lo portavano a casa di chi ospitava la grande adunata settimanale, trasformando ogni serata in una specie di veglione di Natale fuori stagione.
Forse è proprio per questo che non ho mai avuto tanti amici: quel gruppo allargato era sufficiente a soddisfare tutte le mie esigenze di bambino.
© Colombo
Il che non doveva essere affatto facile, visto che ho sempre avuto una volontà di ferro. Ero uno “strong will child”, come si dice dalle mie parti.
Le cose andavano fatte sempre e soltanto alla mia maniera, altrimenti mettevo il muso e diventavo intrattabile. Non per capriccio, non per arroganza: il mio era un incessante desiderio di controllo. Uno strumento per esercitare il mio pensiero su quanto stava per accadere a me, e a me soltanto.
Una volta, la nonna materna, pienamente consapevole del carattere duro e spigoloso che avevo ereditato, disse a mia mamma: “dagli disciplina, ma non spezzarlo” e quella frase mi rimase dentro, prima perché non riuscivo a capirla, poi perché erano state le parole che meglio avrebbero definito la mia vita.
Ancora oggi, quando dopo molto tempo, incontro qualcuno che mi aveva conosciuto soltanto da ragazzo, la reazione che ricevo più spesso è di sincero stupore per essere diventato così gentile, nonostante le premesse.
E di questo, ovviamente, devo ringraziare i miei genitori.
I miei genitori e lo sport.
Lo sport è talmente dentro la cultura sudafricana che il suo racconto è difficile da separare dalle fasi della vita di qualsiasi adolescente.
Io li ho provati quasi tutti, scoprendo di avere talento per molti di essi.
I benefici dell’attività sportiva sono virtualmente infiniti, a saperli cercare.
Ci sono i vantaggi oggettivi, quelli che riguardano l’equilibrio, la biomeccanica, la coordinazione, lo sviluppo muscolare. E poi ci sono tutte le qualità sociali che lo sport sa trasmettere se vissuto nella giusta maniera.
Ecosistema semplificato della vita stessa, lo sport è una simulazione in tempo reale delle dinamiche del Mondo, che accelera i processi di comprensione, esalta le note più pronunciate del carattere, e mette a dura prova i vuoti del nostro essere.
Lo sport mi ha tenuto al riparo dal bullismo, per esempio, permettendomi sempre di essere dal lato “popolare” del corpo studenti e dandomi il tempo di comprendere le mie forme e le mie misure.
Lo sport mi ha definito, dando una direzione alla mia testardaggine di bambino, e trasformandola nella volontà di un adulto che ne comprende anche i limiti.
© Colombo
Dai sette anni in avanti, fino all’università, che è stato il primo momento in cui mi sono trovato solo, a briglia sciolta, libero di fare della mia vita letteralmente qualsiasi cosa, lo sport è stato il principale strumento che avevo per conoscere me stesso e gli altri.
Il mio “strong will” ha sbattuto contro la struttura dello sport, contro le sue fondamenta, imparando per osmosi, e a volte per difetto, come il desiderio di imporsi non possa certo bastare, in un ambiente competitivo.
Non deve bastare, non in un luogo che appartiene a tutti.
È stato un percorso lungo, che ha smussato i miei angoli, pur mantenendo intatta la persona che sono. Una crescita costante, in cui ho compreso poco alla volta che quando hai una volontà forte, il problema non è tuo, ma è degli altri.
E quando sono diventato grande a sufficienza per vedere me stesso in terza persona, ho imparato a usare le durezze del mio spirito per diventare un atleta e un uomo migliore, e non più per soddisfare il mio ego infantile.
Alla fine, per me, è stato il getto del peso, che è una disciplina strana, nella sua ossessiva ripetitività, soprattutto se paragonata al dinamismo di alcuni tra gli sport per cui ero davvero portato, rugby su tutti.
Scegliendo questo sport sono passato dall’essere “quello grande e grosso” all’essere il più piccolo del lotto, riscoprendo equilibri psicologici che in realtà avevo costruito in anni di esperimenti, di fatiche e di gioco.
Il getto del peso mi ha insegnato che il corpo non è soltanto un involucro da osservare, e, secondo alcuni, giudicare in base alle sue prestazioni e alla sua apparenza. Il corpo è una macchina dalle infinite capacità nascoste. Uno strumento del fare, che attraverso i piccoli successi quotidiani dello sport può dare un valore nuovo all’esistenza, e un significato alle sfide che ti pone, non ultima quella di conviverci ogni singolo giorno, che ci sia il sole oppure no.
Lo sport è come la vita, e la vita è come l’arte: non tutta è comprensibile a tutti, ma basta essere sinceri nel farla e qualcuno la sentirà propria, perché in ogni mercato c’è sempre spazio per l’onestà.