“Ciao, sono Thomas e amo il nuoto.”
Chi potrebbe mai presentarsi così?
Non è facile.
Non è sufficiente.
Ma è anche la verità: io sono Thomas e amo il nuoto.
Mi sento quasi male a dirlo.
Perché non vorrei mai che questa diventasse la sola cosa che si vede di me, che sono anche molto altro, ma che dall’acqua e dal nuoto vengo comunque, in parte, definito.
Perché ci vivo immerso.
Quasi ci riesco a respirare dentro.
E questo da sempre.
T.C. @vittorioavondo - @visionvii
Io seguo tutte le gare.
Guardo tutte quelle che posso.
Dalle migliori alle peggiori, da quelle più importanti a quelle dimenticate da Dio in qualche sperduta piscina del Veneto, da quelle dei grandi campioni del passato a quelle in cui scendono in acqua soltanto nuotatori molto più piccoli di me, di cui forse nessuno, genitori esclusi, conosce il nome.
Mi appassiona lo studio della tecnica.
Mi appassiona l’avvicinamento al blocco.
Mi appassiona lo sviluppo di una bracciata.
Una virata diversa dalle altre.
Un approccio più o meno aggressivo di quello che sono abituato a vedere di solito in quella gara.
T.C. @vittorioavondo - @visionvii
Il nuoto è mio, e io sono del nuoto.
Come due amici, come due amanti.
Anzi di più: come due fratelli, che niente mai, qualunque cosa accada, potrà mai far smettere di avere qualcosa in comune, qualcosa che ci lega.
Lo stesso identico DNA.
Più della metà del peso del mio corpo è acqua, come nel corpo di tutti gli altri.
Ma a differenza di tutti gli altri, io la sento.
La sento e la muovo.
La muovo e ci parlo, perché siamo cresciuti insieme, perché siamo lo stesso elemento, e perché fuori dalla vasca è come se ci mancasse qualcosa.
È un dialogo, il nostro. E non esistiamo, senza parlare.
T.C. @vittorioavondo - @visionvii
Forse è per questo che odio la parola “talento”.
Forse è per questo che, in realtà, credo che il talento non esista proprio.
Che non ci sia nessuna dote invisibile, nascosta nelle viscere dell’uomo, che appare magicamente, baciando soltanto i più fortunati tra noi.
Oppure, forse, odio la parola “talento” perché spesso l’hanno usata contro di me.
Ancora e ancora.
Come un giudizio, come una condanna.
Come se bastasse ripeterla per sapere chi sono, a sapere quanto fatico, cosa sogno di diventare, quanto mi spacco in piscina.
Come se dire “talento” equivalesse a conoscermi davvero.
@Gian Mattia d’Alberto - LAPRESSE
Tutti hanno un’idea su quello che dovrebbero fare gli altri.
Tutti hanno sempre in mente il piano perfetto.
Tutti sanno cosa è giusto fare e soprattutto cosa non fare.
Non che qualcuno me l’abbia chiesto. Nessuno a parte la mia famiglia e il mio allenatore, Alberto, che è lo stesso da sempre, e che, proprio da sempre, ha capito la forma del mio linguaggio, il labirinto della mia testa.
La capienza del mio cuore.
Abbiamo preso qualche porta in faccia, e l’abbiamo presa insieme, perché quando in tanti dicevano, a sottovoce oppure no, che mi sarei dovuto specializzare, che avrei dovuto battezzare una gara e focalizzarmi soltanto su quella, noi siamo andati avanti per la nostra strada.
Io, Alberto e l’acqua: i soli a sapere davvero cosa fosse giusto fare.
Non giusto in assoluto.
Giusto per essere felici.
Giusto per stare bene.
Giusto per essere noi stessi.
@Gian Mattia d’Alberto - LAPRESSE
Io mi stufo persino a preparare i misti, figurarsi ad allenare uno stile solo.
Sono pur sempre il bambino che scappava dall’asilo, per tornare a casa di nascosto dalle maestre.
Sono pur sempre l’adolescente che era difficile da inquadrare, perché seguiva poco i consigli degli altri e preferiva starsene per i fatti suoi. Anche durante le gare.
Sono stato tutte queste cose, e forse le sono ancora, anche se ora ho imparato ad ascoltarmi, a rispettare i miei tempi e a difendere le mie idee.
Dopo le Olimpiadi e dopo il Record del Mondo, sono arrivati in tanti, per provare a raccogliere ciò che non avevano aiutato a seminare.
“Lo sapevo!”
“Lo dicevo io!”
No, non lo diceva quasi nessuno.
Non quando pensavano che fossi una testa calda.
Non dopo i primi due anni da senior, quando tutti si aspettavano che vincessi tutto, mentre invece, io, volevo soltanto avere il tempo di ambientarmi con calma.
Di capire dove fossi finito.
@Gian Mattia d’Alberto - LAPRESSE
La verità è che mi sono sempre spaccato la schiena in acqua, che ho sempre lavorato duro e che sono sempre stato innamorato del nuoto.
La verità è che ho un carattere particolare, ma che chi mi conosce e mi allena è sempre stato in grado di parlarmi, di guidarmi, e di farmi crescere.
Anche di aiutarmi a gestire le giornate di merda.
La verità è che c’è sempre stato un piano, un progetto, e che dipendeva soltanto dalla persona che sono e dall’atleta che volevo diventare.
Non dalle chiacchiere della gente.
La verità è che sentirmi dare del talentuoso o della grande promessa, ad un certo punto, mi ha quasi nauseato, perché mi sembrava che, facendolo, nessuno riconoscesse il vero valore della mia fatica.
E io la facevo tutti i giorni.
Per anni mi sono guardato indietro pensando di essere stato uno stupido, da ragazzo, quando me ne stavo sempre per i fatti miei, o faticavo a sentirmi stimolato dal contesto o dagli avversari di categoria.
Ma oggi so che non lo sono stato affatto.
So che la vita è più complessa di così, e che l’equilibrio che sento adesso, lo stesso equilibrio che vale un Record del Mondo, è costruito anche su quelle fondamenta lì.
Su chi sono veramente.
Che, anche se mi fa un po’ paura dirlo, potrebbe anche essere riassunto con un “ciao, sono Thomas, e amo il nuoto.”