Posiziono i piedi, sistemati sulla linea di tiro alla distanza giusta per potermi sentire stabile.
Prendo l’arco con la mano sinistra, proprio sull’impugnatura, e poi incocco la freccia.
Posiziono la mano destra, con cui prendo la corda, e poi guardo il bersaglio.
Il mio occhio dominante è quello destro, e la mia azione,, quindi, si proietta tutta verso sinistra.
Da qui inizia il movimento, che poi consiste soprattutto nello stare immobili, in un gioco di equilibri, di muscoli tesi e di meccanismi automatici.
Alzo l’arco e inizio la trazione, restando con lo sguardo fisso sul bersaglio.
Arrivo ai miei punti di ancoraggio, quando il mio corpo e l’arco si toccano, si incastrano su linee immaginarie. Linee che, però, per me, sono reali.
sempre da capo.
A questo punto, mi ascolto, sento i muscoli della schiena, attorno alle scapole, muscoli che la maggior parte delle persone non sa nemmeno di avere, che vanno richiamati in una certa posizione per poter dominare il gesto.
Trattengo il respiro.
Il braccio sinistro è teso dritto verso il mirino, che punta al centro del bersaglio, e mentre quella parte del corpo resta lì, perfettamente immobile, a poche decine di centimetri di distanza, parte una freccia che viaggia a 190 km/h.
C’è una lamella di metallo sul riser, la parte centrale dell’arco, sotto la quale posizioniamo la freccia, che raggiunto l’allungo, scatta.
A quel punto, e nel minor tempo possibile per non rischiare altri movimenti, si può rilasciare la freccia.
Quell’istante tra lo scatto e la partenza della freccia determina tutto o quasi, nel tiro con l’arco. È un movimento impercettibile per chi ci guarda, e va ripetuto uguale a se stesso, molte volte. Una freccia dopo l’altra, ripartendo sempre da capo.
Nelle giornate di sole, se le alette e la cocca sono di un colore chiaro sembrano illuminate, e con lo sguardo posso seguire facilmente tutto il percorso della freccia da quando la rilascio fino al bersaglio.
Il bersaglio.
Che sta a 70 metri da me.
Mi accorgo realmente della difficoltà di questo sport quando capita che qualcuno che non lo conosce si presenti durante un allenamento, e vedendomi con l’arco in mano chieda dove sto tirando, o perché io stia mirando nel mezzo del nulla.
“No guardi il bersaglio c’è, è quel cerchio colorato laggiù in fondo in fondo”.
Molto distante, in effetti.
Ma credo che questo valga per tutto ciò che richiede del talento, della dedizione, un allenamento costante. Succede che ci si appropri di gesti e prestazioni che per il resto del mondo rasentano l’impossibile, e che si faccia di loro la normalità.
È quello che faccio da sempre: tiro lontano, fino al punto in cui comincia a non sembrarmi nemmeno così lontano, finchè non me lo fanno notare gli altri.
Tiro con l’arco da quando avevo 7 anni.
Papà mi ha portata in palestra e mi ha detto di scegliere tra i diversi archi per bambini che c’erano a disposizione. Nessun dubbio, io volevo l’arco rosso, era bellissimo.
Crescendo ho scoperto poi che tra tutti era anche il più sofisticato, quello di miglior qualità, ma all’epoca mi interessava solo che fosse rosso.
Quando sei piccolo tiri ad un bersaglio più vicino, con un arco più piccolo e meno complesso. Poi, mano a mano che cresci l’arco cresce con te, e così la distanza a cui devi mirare.
È una ricerca continua di equilibri nuovi, perchè siamo in continua evoluzione e questo sport ha bisogno di punti fermi, anche se i nostri occhi cambiano, la nostra dentatura cambia, e così fanno i muscoli e tutto il resto del corpo, e devi adattare il gesto a chi stai diventando.
Devi imparare a fidarti anche di chi ti guarda da fuori, del loro giudizio, delle critiche. Grazie a questo sport ho imparato quanto sia importante essere indipendenti e allo stesso tempo saper chiedere aiuto, perché nessuno arriva lontano da solo.
Serve uno staff composto da specialisti di ogni settore. Se all’inizio bastavamo io e papà per allenarmi, partecipare alle gare e vincere a livello giovanile, le cose poi sono cambiate, e abbiamo dovuto alzare l’asticella.
Mi sono trasferita in provincia di Torino presso una scuola federale, con un progetto chiamato “Obiettivo Tokyo” e direi che ha funzionato bene visto che ho centrato anche l’obiettivo precedente, i Giochi di Rio.
La prima Olimpiade è stata come una grande bolla di sapone.
Ero felice, un po’ spaesata, ero giovane e forse non del tutto consapevole.
Avevo fatto gli esami di maturità appena due settimane prima di partire per il Brasile.
Lì è arrivato un quarto posto che per quanto bruciasse restava il miglior risultato nella storia italiana dell’arco femminile e quindi, razionalmente, avremmo dovuto essere soddisfatti. Ricordo di non aver nemmeno pianto, come se in cuor mio sapessi che in quel momento andava bene così.
Tokyo è stata tutta un’altra storia.
Sappiamo bene che è stata un’edizione speciale, a porte chiuse, con molte limitazioni, e anche se non posso esserne certa, forse per me è stato meglio disputarla nel 2021 che non l’anno precedente. Sono stati mesi di maturazione e consapevolezza, è arrivata in Giappone una versione di me diversa.
La medaglia di bronzo vale molto, perché questo sport vive le Olimpiadi come l’unica grande vetrina e, come spesso accade, sono le medaglie, i successi, i volti e le storie degli atleti ad avvicinare le persone a un movimento.
Spero che ci siano state bambine e bambini, davanti alla tv, che guardavano con il fiato sospeso le frecce partire dal mio arco proprio come ho fatto io nel 2004 e nel 2008. Come quando sono scesa in strada urlando per festeggiare lo storico oro di squadra di Londra 2012.
Spero che ci siano, in giro per l’Italia bambini con sogni grandi, e con il coraggio di dirli a voce alta, come ho fatto io in un’intervista che, cercando un po’, si trova ancora in rete, quando a 10 anni ho detto che sì, mi piaceva proprio il tiro con l’arco, e che il mio sogno era andare alle Olimpiadi.
Chissà, forse quella bambina si immaginava già sotto i cinque cerchi con il suo bellissimo arco rosso.