Il calcio mi ha dato tanto.
Ma il calcio ha preso anche tanto, da me.
Ha preso tanto da me, dalla mia famiglia, dai miei cari, dal mio corpo.
Ha preso tanto dai miei polmoni, dalle mie ossa, dalle mie articolazioni.
Nella bilancia del cuore, mi sentirò sempre in debito con il gioco, con quell’insensata danza di uomini e palloni, quel rincorrere a perdifiato la prossima trasferta, i prossimi 3 punti.
La prossima salvezza.
Perché mai, neppure nel giorno più nero, mi sono guardato dentro e ho visto il vuoto.
Mai, neppure nel giorno più nero, non sono riuscito a ritrovare le mie motivazioni.
La gratitudine.
La felicità del bambino.
13 interventi in 4 anni.
13 interventi, tutti per provare a curare la stessa cosa.
Tutti per riattaccare lo stesso pezzo.
Nella speranza che tornasse a funzionare, che tornasse quello di prima, che tornasse a rispondere ai miei impulsi, ai miei comandi come aveva sempre fatto fin lì.
13 interventi, tutti vissuti come se fosse l’ultimo, come se fosse quello risolutore, come se ricucita la pelle e poi levati i punti, ci fosse soltanto il campo, in fondo al tunnel. Come se ci fosse il ritorno all’infanzia e alla sua spensieratezza.
Come se fosse solo un enorme e complicata magia.
La prima volta, sono tornato in campo dopo soltanto 5 mesi, e tutto quello che facevo aveva davvero il profumo di un piccolo miracolo.
Il ritorno in gruppo.
La prima da titolare.
Il gol.
Sette punti in tre partite.
Quella sensazione di aver cambiato rotta, di aver girato la barca, di avere definitivamente superato il dolore.
Dolore che poi, avrebbe preso ancora a calci il mio nuovo inizio.
Perché quello che avevo, quello che ancora ho, e quello che avrò per sempre, all’anca, è un problema congenito.
È genetica, la puoi combattere solo fino ad un certo punto.
Persino oggi.
Persino con la chirurgia dei nostri tempi.
È strano, se ti fermi a pensare.
Ci sono calciatori che si sono rotti decine di volte.
Infortuni traumatici, ossa che scricchiolano, legamenti che saltano.
E poi tornano.
Forti quanto o più di prima.
Mezzi d’acciaio e mezzi di carne.
Stanchi magari, ma motivati da un nuovo equilibrio.
Tornano.
Tornano a giocare.
Mentre io, che di problema ne ho avuto soltanto uno, non ci sono mai davvero riuscito.
Ne parlo con serenità, oggi, che il tempo è passato, e che l’amore e la vigna curano le mie ferite. Ma non è stato semplice viverlo giorno per giorno.
Non è stato semplice passare da ortopedico a ortopedico.
Fare le infiltrazioni.
Prendere tutti quei farmaci.
Non è stato semplice pensare ogni volta alla “prossima” cosa da fare, invece che al gioco. Non lo è stato confrontarsi con il dolore.
Osservare gli altri da fuori.
Leggere i giornali.
Sentirsi lontano dal campo.
Affrontare il proprio limite.
Nei rari momenti di pace, la gamba sana riusciva a trascinarsi dietro l’altra, e con l’esperienza mascheravo tutto il resto, anche se i test fisici sembravano quelli di un’altra persona.
Quelli di uno zombie.
Nei momenti più difficili, invece, non pensavo più nemmeno al calcio, ma pensavo al mio futuro, pensavo a quanto avrei voluto ancora correre, quando sarei diventato papà.
Anche solo per giocare, o per tirare due calci al pallone sulla spiaggia, con gli amici, in vacanza.
Eppure, la cosa più strana in assoluto, è che anche di fronte al male fisico, anche di fronte alla paura di non assomigliare più a me stesso, non mi sono mai arrabbiato con il calcio.
Mai.
Ho iniziato ad avere problemi a 26 anni, e pur avendone dedicati 4 e mezzo alla ricerca di soluzioni di vario genere, non ho mai smesso di pensare alla fortuna che avevo avuto per arrivare fin lì.
All’inestimabile valore di 26 anni di sogni realizzati, di divertimento, di integrità fisica.
Proprio a me.
Era successo proprio a me, cresciuto nelle giovanili di una squadra piccola-piccola.
Proprio a me, che non mi ero neppure accorto di essere arrivato in Serie A, da tanto era stato lento e naturale il mio processo di crescita.
Proprio a me, che mi sentivo uguale-identico a tutti i miei amici, quelli con cui andavo a scuola, oppure alla scuola calcio.
Per 26 anni ho inseguito un pallone, ed è impossibile metterci un prezzo sopra.
Assegnargli un valore.
Decidere cosa sacrificheresti per averli di nuovo.
E certo, è stato difficile vedere tutto scivolarmi piano tra le dita.
È stato difficile rendermi conto che per alcune società non ero più un calciatore, oppure un uomo, ma uno stipendio, un problema, un fastidio.
È stato difficile piegarsi a quella sensazione di urgenza che lo sport ti rimbalza addosso, settimana dopo settimana, anche se poi, alla fine, la partita della domenica non conta poi così tanto, nel grande schema della cose.
È stato difficile sentirmi un numero.
Un difetto.
Un investimento a perdere.
Ed è stato difficile vedere il grande amore del pubblico, dei tifosi e dei compagni, e non essere in grado di restituirne un pezzetto in campo, come avevo sempre fatto prima.
Oggi, osservo il mondo del calcio da lontano, perché non volevo più essere una pedina di queste dinamiche, neanche sotto una luce diversa.
Coltivo la mia vigna, la nostra vigna, in una terra che ci ha adottato, come se fossimo nati e cresciuti qui. E sempre qui, costruiamo il nostro amore, la nostra pace.
La nostra prossima vita.
A contatto con la natura, il mio nuovo orologio interiore.
Pieno di cicatrici e immensamente grato.