Sarah Fahr

11 MIN

Posso essere due cose contemporaneamente?

Posso amare e odiare chi sono?

Posso sentirmi giovane e vecchia?

Grassa e magra.

Forte e scarsa.

Italiana e tedesca.

Pronta e impaurita.

Triste e felice.

Posso essere me stessa, fino al midollo, e poi non riconoscermi allo specchio?

Posso essere davvero chi sono, completamente e senza dubbi, soltanto negli occhi di chi mi ama? Nell’anima di chi conosce ogni cosa e resta comunque lì.

Al mio fianco.

Perché riesce a vedere tutto nello stesso istante.

Sarah Fahr

Italiana e tedesca.

Il cognome di mamma prima di quello di papà.

Da piccola mi sembrava figo, mi gasava, mi faceva sentire importante, come se venissi da un universo parallelo, che gli altri potevano soltanto immaginare.

E, in parte, era davvero così.

Ho imparato il tedesco prima di iniziare a parlare italiano.

Ho conosciuto i modi e le usanze di Germania quando ero soltanto bambina, e le cose le capivo per osmosi, per vicinanza. Per esempio.

Le estati, in Germania.

I parenti, in Germania.

A volte persino la scuola, in Germania.

E ancora oggi, che tanto tempo è passato, quando il nostro aereo fa un scalo là, io mi sento come un friccicore addosso, e non appena tocco il suolo corro a comprare un bretzel.

A farlo in tedesco.

A farmi sentire dagli altri mentre lo faccio.

Due culture, due.

Due persone, due.

Che sgomitano, per farmi ascoltare la loro voce.

Sarah Fahr

© FILIPPO RUBIN / LVF

Il volley e tutti gli altri sport.

Anche se poi, a dirla tutta, in questo racconto, è rimasta in piedi soltanto la pallavolo.

Eppure non è stato amore a prima vista, perché a me piaceva la ginnastica artistica.

Ecco, sopra ogni altra cosa, io amavo la ginnastica artistica.

C’era stata la vela, la grande passione di papà.

Ma il mio compagno di scorribande era il nonno, un vero insegnante.

Un vero maestro.

Fu lui a portarmi in piscina per nuotare, e poi al maneggio per cavalcare, e sempre lui, per primo, ad accompagnarmi sul tappeto.

La ginnastica mi riempiva gli occhi, mi faceva tremare le gambe.

Mi faceva sognare in grande.

Peccato che tanto affetto, non fosse poi così ricambiato, se è vero che quando veniva il momento di andare a fare le gare, io non venivo mai portata con le altre.

E purtroppo è vero.

Andai allora, su insistenza dalla mamma, a provare con il minivolley, senza sentire però, soddisfazione alcuna. Sono state più le volte in cui mi sono presentata senza scarpe per errore, lasciate distrattamente a casa, di quelle in cui mi sono davvero divertita.

E allora, chissenefrega se alle gare, poi, non mi ci portano, continuo con l’artistica, dove sono più “io”, dove mi sento vicina a chi sento di essere.

Sarah Fahr

E questo è durato per un po’.

È durato fino al giorno in cui sono dovuta tornare a bussare alla porta della pallavolo, e non perché avessi cambiato idea sulla disciplina, ma perché la mia migliore amica giocava lì, ed io non volevo starle lontana.

Forte e debole.

Alta, ma non poi così alta.

Delicata e leggera, che mi porta via il vento.

Mi ci è voluto il primo anno di liceo per accorgermi che, con il tempo, qualcosa stava cambiando, che stavo crescendo a dismisura.

O almeno questo è ciò che dicevano gli altri.

E anche se a 14, 15 anni nessuno può sapere davvero nulla della vita, per qualche strana ragione, quella è l’età in cui nascono alcune tra le cose più importanti, come l’autostima, come la comprensione del mondo, come la sessualità.

Ho fatto l’abitudine all’occhiataccia della gente.

Ho fatto l’abitudine al commento sotto i baffi, ai pizzicotti, ai risolini.

Ci ho fatto talmente tanto l’abitudine che ad un certo punto ho iniziato persino a rispondere, abbassandomi al livello di chi mi aveva ferito.

Nascondendomi nel gruppo.

Perché il gruppo, sotto sotto, protegge, e perché se siamo diversi insieme allora gli altri se ne faranno una ragione. Se ne dovranno fare una ragione.

Le prime serate a ballare con i tacchi alti, solo ed esclusivamente con le altre, così se puntano il dito non lo fanno verso di me. Lo fanno verso di noi.

Magra e grassa.

Sono stata e sono entrambe le cose.

Sono stata il rapporto con il cibo, con il mio corpo, con le mie insicurezze.

Fino ai 18 anni non mi sono mai fatta un pensiero, non mi sono mai preoccupata di cosa significasse mangiare da atleta. Ricordo che usavo i buoni pasti che mi dava la squadra in un ristorantino casereccio.

Un’osteria.

Con gustosi piatti da osteria.

E con porzioni da osteria.

Poi è arrivato il COVID, e io ho iniziato un percorso diverso.

Che vorrei tanto definire “strano”, ma che in realtà è familiare a troppe atlete, a troppe donne.

Sarah Fahr

Mi è preso il pensiero di essere arrivata nella squadra più importante del Mondo.

In quella più forte.

E mi è preso il pensiero che fosse ora di alzare il livello.

Di diventare migliore.

In ogni aspetto del gioco.

Anche nella dieta.

Così ho iniziato un regime rigidissimo.

Completamente inadeguato alle mie esigenze di atleta.

Completamente inadatto alla mia fisicità.

Il perimetro si è fatto sempre più circoscritto, sempre più stretto intorno a me.

Prima non sopportavo il chilo in più.

Poi pesavo i grammi di quel che mangiavo.

Ho iniziato a portarmi il pasto da casa anche quando uscivo con le ragazze.

Ho iniziato a vedermi sempre grassa.

Ho iniziato a riconoscere in me i sintomi dei disturbi alimentari.

Mi sono presentata ad alcuni allenamenti senza aver mangiato per un giorno o due.

Mettendo a rischio la mia carriera e la mia vita.

Mi sono sfondata spesso nel giorno libero, come se solo in quelle 24 ore avessi l’autorizzazione per ascoltare quella parte di me.

Mi sono infilata due dita in gola per vomitare.

Mi sono costretta a sentire i crampi della fame.

Mi sono accorta che la mia intera esistenza era diventata un enorme cronometro, che scandiva i minuti che mi separavano dal prossimo pasto, dal prossimo spuntino.

Poi mi sono spaccata il ginocchio.

Due volte.

Lo stesso.

E anche se non posso dire con assoluta certezza di essere stata la causa profonda di quel che è successo, non posso neppure negare il fatto che quel che facevo alla mia anima, in qualche modo, intaccava anche il mio corpo.

La prima volta che ho rotto il crociato ero con la nazionale, e mi ricordo la serenità con cui ho accolto la notizia. Ricordo che mi sentii quasi sollevata dall’essermi fermata.

Pochi minuti dopo aver ricevuto la diagnosi entrai in sala da pranzo, e se chiudo gli occhi rivedo Miriam che con gli occhi sgranati mi guarda e mi chiede “ma come fai?”.

Come fai a riderci su?

Come fai a scrollare le spalle.

Incoscienza o consapevolezza.

Chi lo sa.

Ma nello sport ci sta anche quello, ci sta il ginocchio che si rompe.

Ci sta la ripartenza.

Sarah Fahr

La prima riabilitazione non ha avuto una singola lacrima.

Non un singolo problema.

Ero una macchina che andava aggiustata.

Come tutto il resto.

Ma la seconda volta no.

Dopo un mese dal rientro, stesso infortunio, stesso ginocchio.

Ho pianto per una settimana.

Mi è caduto il Mondo sulla testa.
Il mio mondo, mi è caduto sulla testa.

Tutti i miei disequilibri e le mie paure.

Tutti i miei limiti e miei dolori.

Tutto è esploso lì, dentro quel ginocchio.

Fortunata e sfortunata.

Ho preso un treno, per andare a Roma ad operarmi, e come ogni persona a cui è stato fatto un torto, ne parlavo con chiunque. A chiunque raccontavo la mia storia.

Volevo la loro indignazione, volevo il loro compatimento.

Poi si è seduto accanto a me un uomo.

Un libraio, di Conegliano.

E quando gli ho raccontato della mia sfortuna lui è rimasto fermo.

Impassibile.

Mi disse che era nato con una parte del corpo paralizzata e che aveva impiegato 18 anni di fisioterapia ad imparare come muoverla.

E tutto, di colpo, ha preso una forma diversa.

Tutto si è raccolto in uno spazio molto piccolo e si è adagiato dentro di me.

Il presente e il passato.

I dubbi e le paure.

Le dita in gola e il binge eating.

La voglia di spaccare il Mondo e quella di fare ginnastica artistica.

Tutto si è rannicchiato dentro di me, e ha iniziato a respirare.

La seconda riabilitazione non è stato soltanto aggiustare un pezzo rotto.

È stata molto di più.

E dal quel percorso sono uscita diversa.

Sempre io, ma molto più pronta ad amare ed essere amata.

Tutto insieme: everything, everywhere, all at once.

Sarah Fahr / Contributor

Sarah Fahr