Era una sera di metà novembre, ed ero a casa, con la famiglia.
Uno di quei momenti che dai tanto per scontato nella vita quotidiana e che poi, quando il lavoro oppure il destino, o ancora i sogni ti portano lontano, ti mancano più di tutto il resto.
Quella normalità piena.
Piena di cose.
Gonfia d’amore, di spazi condivisi, di racconti di scuola, di incazzature sul lavoro, di momenti tutti uguali, eppure irripetibili.
Suona il telefono.
È il mio telefono, anche se all’inizio non lo riconosco.
Perché quella non è certo la mia suoneria.
Però si illumina, vibra, con un tono che non avevo mai sentito prima.
Sullo schermo compare il nome Andy Diaz Hernandez.
Io neppure sapevo che si potesse chiamare tramite Instagram, guardo mia moglie e le chiedo: “cosa vuole da me?”.
Come se lei ne sapesse più di me, come se potesse leggere il futuro.
Come se spettasse a lei il compito di dirmi rispondi oppure lascia stare.
Io e Andy ci eravamo solo sfiorati. Non lo conoscevo davvero.
Una volta siamo stati sulla stessa pedana, a Birmingham, nel 2018, vecchio leone io, giovane pantera lui, ma nulla più.
E poi io di atleti ne ho visti passare tani, in vent’anni di carriera.
Tre, forse quattro generazioni. Non mi posso ricordare di tutti.
La suoneria sale di volume, i pensieri si interrompono, e io rispondo.
Certo che rispondo.
Perché quando qualcuno chiama io rispondo sempre, prima o poi.
Che mi piaccia oppure no, che se lo meriti oppure no.
Io e la mia coscienza rispondiamo sempre.
Quella che sento in lontananza è una voce spaventata, una voce ferita: “Donato aiutami, sono in Italia e non ho nulla. Aiuto. Aiuto.”
Mi viene passata una terza persona, che in un italiano più convincente mi spiega la situazione.
Andy è scappato.
È fuggito dal regime, ha abbandonato Cuba di rientro da Tokyo 2020, si è rifugiato in Italia, senza un euro, senza nulla più dei vestiti e del talento che aveva addosso, e ora è qui, davanti all’ufficio immigrazione.
Dorme all’aperto.
Per essere il primo domani quando si aprono le porte del palazzo.
Andy è in fuga e chiede di me.
Chiede di Donato Fabrizio, chiede di aiutarlo e di allenarlo.
Chiede, senza mezzi termini, di occuparmi di lui.
Ci sono voluti tanti mesi per mettere in prospettiva quella richiesta d’aiuto.
Mesi e mesi ad interrogarmi su cosa serva provare, nel profondo, un uomo adulto, per arrivare a chiedere aiuto.
Quanto orgoglio mangiato.
Quanto freddo sentito.
Quanto abbandono e quanta solitudine tu debba aver conosciuto per prendere il telefono, chiamare qualcuno che appena sa chi sei e dirgli, ripetutamente, aiuto.
Aiutami.
Gli chiedo tempo.
La situazione è complicata, molto complicata, e la burocrazia, nel nostro Paese, ha i suoi tempi e i suoi modi, non sempre facili da comprendere.
Inizio a fare telefonate a destra e a manca, sia tra coloro che lo conoscono come atleta e come persona, sia tra coloro che possono farmi capire “come” potrei aiutarlo.
“Come”, perché in cuor mio, anzi in cuor nostro, il “se” non doveva neppure essere discusso.
Tutti mi dicono di starne alla larga.
Tutti.
Non una sola persona mi ha detto una cosa diversa.
È inaffidabile. È una testa calda. Tanto scapperà di nuovo.
E allora, stufo di sentirmelo dire, ho smesso di porre il primo tipo di domanda e mi sono concentrato soltanto sul secondo: in che modo lo posso aiutare?
Se scavi, il consiglio giusto, prima o poi arriva.
Lo sguardo competente di chi conosce il sistema, di chi sa come navigarlo, se ci tieni davvero, arriva.
Richiamo Andy: “per prima cosa ti devi auto-denunciare. Devi andare in questura e farti rilasciare un pezzo di carta che dice chi sei e che sei qui, anche se non avresti il diritto di esserci. Senza quello non possiamo fare nulla.”
Il giorno seguente, dopo aver dormito per strada, sporco e infreddolito, Andy è andato a denunciarsi, solo e soltanto per tornare da me e dirmi, con la voce più confusa che impaurita: “e adesso?”
“E adesso?”
Lo chiedo anche io, a mia moglie. La persona più incredibile che abbia mai incontrato in vita mia. “Vai a prenderlo” mi dice.
Vai a prenderlo.
Non sia mai che qualcuno ci abbia chiesto aiuto e noi abbiamo risposto di no.
Il pensiero vola alle nostre figlie, che vivevano con noi in una casa normalissima, con gli spazi, e i ritmi, e le abitudini di una casa normalissima.
E non posso fare altre che rimbalzare anima e mente tra il pensiero di loro oggi, chiedendomi come reagiranno ad un estraneo in casa, e quello di loro domani, sperando in cuor mio che se mai chiedessero aiuto a qualcuno, quel qualcuno faccia quello che sto facendo io.
Voglio trovare un modo per dire al Mondo che i Donato sono brave persone, e per dire al Mondo che se ne deve ricordare, quando e se saranno loro ad avere bisogno.
Recupero Andy in una casa di periferia, piena di altri migranti irregolari come lui: “ora stai con me. Non so il perché ma il cuore dice di aiutarti”.
E quel cuore, forse, era soltanto mia moglie.
Ho passato tante notti insonni, al pensiero di uno sconosciuto, appena al di là del muro, separato da un velo di carton-gesso e poco più dalla camera delle nostre bambine.
Non aveva un euro, ed è stato come crescere un figlio nuovo.
Adulto e con esigenze diverse, ma con tutto il diritto alla propria piena dignità.
Ho dovuto insegnargli ogni cosa, proprio come con le mie figlie, riguardo al denaro.
Facevo la ricarica del cellulare a loro, e così la facevo a lui.
E da lì in avanti, tutto si è sdoppiato, con la burocrazia italiana da un lato, e lo sport, il nostro linguaggio comune, dall’altro.
Abbiamo iniziato ad allenarci, senza una palestra, senza un campo e senza nessuna garanzia che avremmo mai potuto scendere in pedana.
Ci siamo allenati per la gloria.
Per la fatica.
Per dare un senso allo stare insieme, al tenerlo in casa.
Forse soltanto per continuare a credere che un lieto fine ci sarebbe stato anche per Andy.
Mi emoziona ripensare ai lunghi viaggi in macchina, quando Andy, in preda ai momenti di sconforto, o magari sopraffatto da una riconoscenza che non pensava più di poter gestire, mi chiedeva: “ma perché fai questo per me? Davvero pensi che io abbia talento?”.
Eppure non ho dubitato mai.
Non ho dubitato mai di aver fatto la scelta giusta.
Non ho dubitato mai di lui, di noi, delle mie figlie.
Non ho mai dubitato che io fossi un uomo buono.
Ho soltanto avuto paura.
Paura di perderci nei meandri della burocrazia.
Paura di non riuscire a fargli avere i documenti, o anche solo gli appuntamenti per richiedere, quei documenti.
Non esiste un protocollo per una storia così.
Nè burocratico né umano.
E dovevi farti un mazzo enorme fuori dal campo, nella vita reale, per tenere viva la fiammella di una prospettiva futura, e allo stesso tempo trovare da qualche parte la forza mentale per spingere tutti i giorni in palestra, o in pedana.
Senza un obiettivo specifico.
Senza una data.
Senza una garanzia.
Il resto della storia, adesso, lo sanno tutti.
Tutti sanno che quella cittadinanza è arrivata, tutti sanno che siamo andati a Parigi 2024, la prima gara in azzurro di Andy, e tutti sanno che abbiamo vinto il bronzo.
Cosi come tutti sanno, perché lo racconto sempre con gioia, del perché il salto triplo ci abbia unito così tanto, o di come io sia convinto del fatto che sono le rinunce a fare grande un atleta. Non le sue disponibilità. Non il suo impegno.
Ogni volta che sono entrato in un Villaggio Olimpico ci ho lasciato dentro un pezzo di me, ma ne sono uscito più grande, non più piccolo.
E nessun pezzo potrebbe mai essere più grande di quello che ho lasciato a Parigi.
Perché era mio, e di Andy e della mia famiglia.
Era per noi, era per loro.
Una cosa presa è destinata a sparire, ma una cosa data sarà tua per sempre.
E non importa se ora le mie bimbe sono grandi e se Andy ha spiccato il volo, perché nulla potrà mai privarci di quello che abbiamo vissuto, e perché anche se dovesse finire altrove, la nostra casa sarà sempre la sua casa.
PS: e intanto, nel frattempo, la sua residenza è ancora qua.