Gabi

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Da piccola vivevo in cima ad una collina.

E per tornare a casa, ogni giorno, la dovevo scalare.

La dovevo affrontare.

 

Tutte le volte sfidavo me stessa, più arrabbiata e più decisa che mai, per vedere se fossi in grado di arrivare alla porta un secondo più veloce della precedente.

O magari impiegandoci un passettino di meno.

 

Non avevo idea del perché.

Non sapevo da dove provenisse quella scintilla di competizione, quel piccolo fuoco di furore agonistico.

Ancora e ancora, che mi obbligava, quasi mi ancorava alle mie responsabilità.

Il compito di sognare in grande.

Il compito di rappresentare.

Gabi

Sono cresciuta insieme a tre fratelli maggiori, in una famiglia in cui tutti praticavano sport. Nessuno per mestiere.

Tutti per divertimento.

Il confronto era una parte integrante della mia formazione.

Una forma necessaria del mio pensiero.

Il solo modo che conoscessi per diventare grande, un centimetro alla volta.

Eppure c’era qualcosa di strano, qualcosa di dolcemente e ingenuamente strano nella mia maniera di guardare il Mondo.

Qualcosa di candido e arrogante al tempo stesso.

Una naturalezza immediata, trasparente, impossibile da dissimulare, che il mio inconscio, però, applicava su qualcosa che dovrebbe restare segreto.

Un desiderio nascosto.

Troppo rumoroso da raccontare.

Mi ricordo di quando me ne stavo seduta sul divano, con il naso dentro al televisore a guardare le Olimpiadi. E ricordo di come pensassi, anzi di come sentissi in fondo al cuore, che il mio scopo nella vita fosse “rappresentare”.

Onorare il mio Paese.

Difenderne in colori.

Portare in campo la mia gente.

Lo pensavo e lo sentivo.

A 7, 8 anni, prima ancora di sapere in quale sport lo avrei voluto fare.

Anzi, in quale sport lo avrei fatto.

Non c’era dubbio, solo curiosità, solo fremente attesa.

Io arriverò .

Punto.

A fare cosa lo capiremo poi.

E infatti non riesco neppure a ricordare quale gara guardassi in televisione.

Se ci ripenso vedo solo i colori, la festa.

Percepisco il desiderio di grandezza.

La decisione, in fondo, poteva aspettare, anche perché, ad essere del tutto sincera, ero brava in qualsiasi sport.

Il nuoto, il calcio, il tennis: ogni cosa mi veniva con straordinaria naturalezza.

Con facilità.

Pensavo che forse sarebbe stato il tennis il mio biglietto verso la Storia, visto che all’epoca preferivo di gran lunga cimentarmi in una disciplina individuale.

Di me stessa mi fidavo.

Delle altre, meno.

Un’altra lezione che poi, tanti anni dopo, il volley mi avrebbe impartito.

Gabi

Ho iniziato con la pallavolo tardi, tardissimo.

Quasi per caso, di sicuro controvoglia.

La prima volta che ho messo un piede in campo avevo quasi 15 anni, e la palla, di solito, la prendevo a calci.

Non riuscivo neppure a capire le indicazioni dell’allenatore, perché a me, di quel gioco lì, mancava proprio il vocabolario.

Ciò nonostante, nel giro di sei mesi, tutto è sbocciato.

Tutto si è aperto, come un fiore.

Come se fosse l’unica soluzione possibile dell’incontro tra me e il volley.

Come se la verità fosse sempre esistita e io la dovessi solo scoprire, e non costruire da zero.

Sono sempre stata una che impara in fretta, ma la velocità con cui ogni pezzo è andato al proprio posto è stata stupefacente, persino per me.

Nel giro di un paio di anni, solo un paio di anni, dalla prima volta in cui avevo giocato per la prima volta, ero già sulla bocca di tutti, pronta al grande salto.

Rio de Janeiro.

L’enorme Rio.

Che mi aspettava, non ancora diciottenne e completamente nuova a questo ambiente.

Quell’esperienza è stata una benedizione, nel bene e nel male.

Ero sia lontanissima da casa, che vicina alla mia cultura.

Immersa nel mio Brasile.

Con la famiglia ancora nell’orizzonte quotidiano.

Nello stesso fuso orario.

Un corso accelerato di indipendenza, in uno spazio enorme eppure protetto: i miei anni di Università.

Avevo tante aspettative addosso, e imparare a gestirle non è stato affatto facile.

Ho scoperto a mie spese che non basta vincere per essere apprezzate.

Ho scoperto che non basta impegnarsi, offrire il tuo massimo, con gli alti e bassi naturali dello sport.

Perché qualcuno troverà sempre maggior piacere nel criticarti, nel buttare in mezzo il tuo personale, nell’insultarti.

Non capivo il senso dell’agire degli hater, degli odiatori di professione, quand’ero ragazza. Ma anche quel momento, è stato, in qualche modo, formativo.

Sopratutto grazie a mia mamma, che mi ha aiutato a mettere tutto in prospettiva, a dare un valore diverso alle parole altrui.

Gabi

Lei, che era al mio fianco quando da bambina provavo a scalare la collina di casa più veloce del giorno precedente, e che lo è ancora adesso, quando mi telefona dopo le partite e prima di qualsiasi altra cosa mi chiede “come stai?”.

Solo e soltanto “come stai?”.

L’immediatezza di un gesto che me la rende, nuovamente, mamma.

Sempre e comunque mamma, anche al crescere, al moltiplicarsi delle responsabilità, degli impegni, delle importanze.

È sempre stata la persona più importante e sempre lo sarà.

Perché ha colto fin dal principio la forma del mio essere.

Il peso e la fragilità del mio rapporto con i sogni di grandezza.

È stata l’avvocato del diavolo, lungo tutta la mia carriera.

Capace di grandi opinioni, e di pareri contrari. Ma, allo stesso tempo, sempre la prima a fare un passo indietro.

A dirmi: fai quello che senti.

Come se riconoscesse la forza della mia personalità e la volesse testare.

Nulla di più e nulla di meno, perché in fondo sa, ha sempre saputo, che quando sento davvero qualcosa non c’è modo di farmi cambiare idea.

Chissà, davvero, da dove viene questo spirito competitivo che sento.

Chissà che cosa mi brucia dentro ancora oggi.

Oggi che sono nella squadra più forte del Mondo.

Oggi che ho raggiunto tutto quello che sognavo di raggiungere.

Oggi che non ne avrei bisogno, forse.

Un qualcosa di cui la mia casa, la mia collina e la mia mamma conservano il segreto, sorridendo tra loro, in attesa di raccontarlo anche a me.

Una rima che ci unisce nella stessa storia, nella stessa fiaba.

Scritta nel cielo, sulla pelle oppure nella terra.

Non cambia granché.

Il profumo è lo stesso.

E tutto intorno, è polvere di stelle.

Gabi / Contributor

Gabi