Come tutti dalle mie parti, per un attimo, ho seriamente pensato di darmi al calcio.
In fondo quello era, di solito, il piatto del giorno.
La base.
La base di tutte le estati trascorse a Rossano, quando la scuola finiva e il solo impegno che contasse davvero qualcosa era prendere a calci un pallone, sulla spiaggia e sull’asfalto. Magari con qualche capatina al campo da beach.
Ma quando mi decisi a provare sul serio, per fortuna piovve.
Piovve e piovve ancora.
Per una settimana.
In inverno.
Acqua santa, la chiamo oggi, perché di stare fuori, con quel tempo, non mi andava proprio.
Durai pochissimi giorni, e tornai ad occuparmi del business di famiglia, che è sempre stato il volley.
Papà era un tennista, è vero, ma mia mamma e i mie due fratelli maggiori sono cresciuti a pane e bagher, e non appena ne ho avuto l’occasione, l’ho fatto pure io.
Ne provavo anche 200 alla volta, da solo, contro il muro.
Cercando di cogliere le più piccole sfumature, come cambiava la rotazione spostando di millimetri la mano, il polso, le gambe.

Ho sempre amato lavorare sulla tecnica individuale, diventare bravo nel fare le cose: un elemento che ancora oggi, che il tempo di allenarsi è sempre meno, continuo a ricercare.
Certo, si passano tantissime ore a settimana sul campo da gioco, ma a questi livelli si lavora principalmente sulla tattica, sugli automatismi di squadra, sugli avversari in arrivo, oppure sul conditioning.
E il tempo, ora come ora, di tornare bambino e lavorare su ogni singolo fondamentale, non c’è più. Va cercato e costruito.
Forse questo mio approccio, anzi questo nostro approccio, visto che Antonio e Lorenzo sono uguali a me, dipende direttamente dall’influenza familiare.
Un contesto agiato, che ci ha permesso di divertirci e di esplorare, a condizione unica, però, che la scuola venisse prima.
Sempre e comunque prima.
Senza bei voti a scuola, niente volley.
E non esisteva punizione peggiore.
Per nessuno dei tre.
Se mi guardo indietro, vedo questa impronta ancora viva in me.
Come vedo la strada fatta, che da un piccolo paese della Calabria ai vertici della pallavolo mondiale, è certamente un percorso lungo, del quale, forse soltanto adesso, comprendo fino in fondo le cose che sarebbero potute andare storte.
E non sono poche.

C’è ancora una profonda disparità tra il nord e il sud, almeno in questo sport, che ha bisogno di strutture, di cultura e di buoni maestri per attecchire e crescere.
E più il tessuto è sfilacciato, meno è fitta la trama e più diventa complesso finire nelle reti giuste, fare gli incontri che davvero hanno il potere di cambiarti la vita e di indirizzare una carriera intera.
Una realtà che meno è professionalizzata e più si affida alla vocazione dei pochi, a chi insegna pallavolo per il gusto di farlo, per la passione che ha, più che per il denaro che potrebbe mai ricavarne.
E questo, oggi, è tutto fuorché scontato.
Penso per esempio a Giacomo Bozzo, uno degli allenatori che ho avuto nell’adolescenza, uno di quei rari casi di persone davvero nate per trasmettere il gioco.
L’uomo che mi ha insegnato tutto quello che so, e che per vivere, però, di mestiere, faceva e fa il professore di matematica.
Potete immaginare il misto di emozioni che ho provato nel vedere, ora che sono grande e quel che mi ha passato lo porto nei campi di tutto il Mondo, che nel mio attuale percorso universitario, uno dei corsi che avrei dovuto frequentare, era il suo.
Perché il volley, alla fine, è tante cose diverse.
Talento, disciplina, fame, tecnica.
Ma senza una bella dose di genuinità e persone umili, che poi formano gruppi umili, non vai da nessuna parte.

E comunque, il mio viaggio verso nord, da Rossano a Trento, è stato anche piuttosto fortunato, perché ho sempre avuto l’occasione di vivere contesti e strutture di buon livello, con un po’ di tradizione alle spalle, e di ambizione davanti.
Dove a mancare, forse, era soltanto la materia prima.
Ragazzi e ragazze che avessero voglia di giocare.
Una tendenza che mi sembra cambiare, anno dopo anno, trascinata anche dai grandi risultati delle due nazionali.
Per me, andarsene, fu una scelta necessaria, ma la speranza è che in futuro non debba più, per forza, essere così.
Io sono cresciuto con il mito delle grandi squadre del nord, in parte grazie anche all’esperienza di Antonio, mio fratello maggiore.
All’inizio del suo percorso, ha fatto parte per un po’ del roster della Serie A, a Vibo Valentia, e io ricordo dei viaggi in macchina per andarlo a vedere e di quanto fermento ci fosse quando in città arrivava Trento.
La grande e temibile corazzata Trento.

Ecco, io sono cresciuto con gli occhi a cuoricino per quella squadra lì, quella di Matej Kazijski, quella di Osmany Juantorena, di Colaci e di Lanza, quella di Stokr.
Che dominava in campionato.
Che dominava nei playoff.
E che dominava nel Mondo.
In più Trento, intesa come città, era sempre in cima a tutte le classifiche di vivibilità, di qualità della vita, e io l’avevo idealizzata, trasformandola in un mio obiettivo a lungo, o lunghissimo termine.
Come se soltanto l’arrivare lì, avrebbe permesso di sentirmi realizzato del tutto, consapevole del fatto di essere diventato davvero un giocatore.
Un punto d’arrivo ideale, che mi ha dato un senso di completezza e di pace forse anche maggiore rispetto alla prima convocazione in nazionale maggiore.

Che lo sport e il volley siano pianeti complessi non è certo una novità.
Ma ciò che li rende speciali davvero, è che di quella stessa complessità ognuno ha un’esperienza diversa, unica.
Irripetibile.
Che sia figlia di un ambiente fortunato e di una famiglia coi valori giusti.
O magari del suo esatto contrario.
Di una settimana di pioggia torrenziale o di una geografia sfortunata, da cambiare un chilometro alla volta. Prima per me, e poi per tutti gli altri.
Daniele Lavia / Contributor
