Quand’ero piccolo, a scuola, studiavo la grande storia di Roma.
In casa si guardavano le telenovelas italiane, e io fantasticavo sul Colosseo, immaginando i gladiatori che entrano dalla porta, pronti a combattere tra loro.
L’Italia è sempre stata nel mio sangue, nel mio destino.
Proprio come lo sport.
Ero bravo in tutte le discipline, ma quando i miei genitori hanno visto che finivo spesso in qualche rissa e che a 12 anni sollevavo panche pesantissime sopra la testa senza nessuna difficoltà, mi hanno indirizzato verso la lotta.
Il mio sogno, come quello di tutti i miei amici, era quello di giocare a baseball.
Eravamo un gruppo di bambini talmente numeroso da farci quasi credere che le mamme si fossero messe d’accordo per fare figli nello stesso momento, e formare così la squadra della città.
Cinquanta piccole pesti, che appena suonava la campanella dell’ultima lezione, si mettevano a correre per le vecchie strade di Santa Clara, a Cuba, imitando i campioni che giocavano in America su un campo che però era soltanto nostro.
Un diamante nella polvere, in un’epoca che non tornerà più.
Che non potrà più tornare.
Io non tornerò piccolo com’ero, e non ci saranno mai più bambini che crescono senza videogiochi o senza il cellulare, felici anche soltanto di giocare a nascondino, trasformando i vicoli bui di una terra povera nel ricordo bellissimo di un’infanzia felice.
La mia famiglia non era come tutte le altre, perché la mamma non viveva più con il papà, e io, rimasto nel mezzo, da ognuno di loro ho provato a prendere qualcosa.
Ognuno di loro mi ha dato un pezzetto del proprio carattere, facendomi diventare l’abbraccio vivente di un amore che non c’è più.
Da mamma ho preso la dolcezza, e soprattutto la fede.
Lei andava spesso in chiesa, anche se non ha mai creduto ai santi, o ai martiri, ma soltanto a Dio Padre. Mi diceva sempre che Lui la ascoltava. E io le credevo.
Ho visto in lei anche la mia fede, che poi è tornata quando ho attraversato l’Oceano e sono arrivato qua.
Cuba è un Paese allegro: quando tre persone sono riunite da qualche parte si può già considerare una festa. Mentre il primo impatto con l’Italia è stato completamente diverso, specie perché vivevo in un Centro Olimpico, che nel suo essere perfetto per fare sport, sa anche come tenere fuori dai propri cancelli tutto ciò che non lo è.
C’era la mia camera.
Sotto c’era la palestra.
Di fronte la mensa.
E c’ero io.
Mi sentivo spesso solo, e ripensavo a tutti i pomeriggi di bambino passati a giocare per le strade di casa. Senza niente, ma felice.
È allora che Dio mi si è avvicinato, e che ho sentito di nuovo una fede forte, la stessa dalla mamma, anche se io, per essere sicuri, credo a tutti quanti.
Santi compresi.
Dal lato di papà invece ho preso lo spirito combattivo e l’animo del guerriero, insieme ad una bella dose di ingenuità. Già da piccolo, non andavo sempre d’accordo con i miei pensieri, perché non avevo ancora capito come comportarmi in un gruppo. Ero buono, ma non sopportavo le ingiustizie. Né la matematica, per quel che conta.
E allora finivo sempre a fare a botte con qualcuno, anche quando ero guidato dall’idea giusta. Se vedevo qualcuno rubare qualcosa, per esempio, lo dicevo.
Poi, ne pagavo le conseguenze.
Io e anche gli altri, che litigare con me non era proprio una passeggiata.
Così, grande com’ero, quando papà ha visto che alzavo le panchine come se fossero caramelle, mi ha fatto provare il pugilato e poi la lotta, per andare alla ricerca della strada giusta per me.
Ero nel periodo competitivo della mia vita, quello in cui ogni cosa è una sfida, ogni incontro, potenzialmente, uno scontro.
Sono entrato nella palestra di lotta greco romana che non sapevo nulla di quello sport, e quando mi hanno fatto salire sul tappeto contro un ragazzo molto più esperto di me, l’ho messo a terra senza nessuna difficoltà. Felice come mai ero stato prima di quel giorno, pensavo a quanto sarebbe stato bello affrontare un avversario vero, in una gara ufficiale.
Ma quando organizzarono il primo torneo non mi portarono, perché secondo loro non ero ancora pronto, e ci rimasi talmente male, che il papà mi portò subito nella palestra della lotta libera, così “vedranno quello che sai fare davvero”.
E sapevo fare tanto.
Avevo la lotta dentro: era un piacere sentire di avere talento, e mi piaceva il fatto di essere sempre più forte degli altri. Era bello vedere come il loro impegno non bastasse, contro di me.
Mi sentivo forte.
E quando c’è stato il bisogno sostituire un ragazzo nella categoria 58 kg, mi hanno messo su una bilancia e ho visto che io ne pesavo 57 e mezzo, mi è sembrato l’ultimo segno del destino: quello sarebbe stato il mio futuro.
Stavo crescendo bene, a Cuba, migliorando anno dopo anno e arrivando fino alle porte della cosa più importante che c’è: i Giochi Olimpici. A Rio 2016 ci sarei dovuto andare io, muscoli e cuore, a difendere i colori della mia isola.
Ma, a un mese dalla partenza, mi sono rotto il crociato e il menisco.
Gli infortuni sono cose che capitano a tutti, ma non per tutti hanno le stesse conseguenze. In alcuni Paesi sono solo incidenti di percorso. In altri possono anche significare la fine di tutto.
Dopo aver guardato in televisione chi era andato in Brasile al posto mio, e dopo aver passato un anno intero a fare riabilitazione, sono tornato sul tappeto, nella prima gara nazionale dal giorno in cui mi sono fatto male.
Avevo addosso la ruggine del tempo passato, il dispiacere dei Giochi, persino un po’ di paura, e in quella giornata, tutto ciò che poteva andare storto l’ha fatto.
Forse delusi dal mio rientro, o forse sinceramente convinti che la mia carriera fosse finita, mi hanno obbligato a prendere una pausa forzata dalla lotta, su consiglio di un medico che sosteneva rischiassi addirittura di non camminare più.
Ero a terra, certo che la mia avventura fosse ormai agli sgoccioli e pronto ad andare a fare un lavoro diverso, come il buttafuori in una discoteca, dove il mio fisico poteva essere utile a qualcuno.
Poi, dal nulla, o forse dal cielo, è arrivata la lettera dall’Italia, che mi invitava qui a fare delle competizioni per gli azzurri, iniziando da un torneo in Ucraina.
Ho sentito dentro la forza del ragazzo che alzava le panchine, e la fiducia dell’uomo di Dio, e nonostante non mi allenassi da settimane, ho vinto quel torneo, convincendo la squadra italiana a investire su di me.
Mi sono tornate in mente le ore passate a studiare la storia di Roma, o le immagini del Colosseo, e mi sono sentito anche io come un gladiatore che finalmente aveva trovato la sua arena.
Ecco perché nella medaglia che ho vinto a Tokyo non c’era né orgoglio né rivincita, né gioia né sogno, ma soltanto pace.
La pace di un pensiero ritrovato, anche se spesso è stato sul punto di sparire nel nulla.
E la pace di un uomo che viene da lontano, ma che si sente a casa anche qui.
Un uomo che da piccolo litigava con tutti, ma che si sente un figlio di Dio.
Un uomo che porta sempre in giro per il mondo un pezzetto della sua mamma ed un pezzetto del suo papà.