Forte. Lavorare forte non riguarda l’ambizione o il desiderio.
Riguarda l’integrità. Dare il meglio è solo una questione di integrità, perché non onorare un dono ricevuto sarebbe una vera disgrazia. Non tutti i doni, infatti, hanno la magnifica fortuna di essere trasformarti in qualcosa di tangibile, di diventare
grandi a sufficienza da unire le persone e i diversi Paesi del Mondo, partendo da un invisibile, piccolo, seme.
Forse era già tutto scritto nelle stelle, per me. Io sono nato in Uruguay e nelle strade terrose di Montevideo il passatempo principale, il passatempo unico, era il calcio. Every single day, dal momento in cui finiva la scuola, e fino a che il sole non era
del tutto sparito, noi giocavamo a calcio. Allo sfinimento, con le nostre madri, vere tifose, che gridavano i nomi dal fondo della via, per farci tornare a casa.
Ogni giorno, giocavamo sulla strada, che era come una seconda madre per tutti noi. “Car!” gridava qualcuno, quando stava per passare una macchina e noi ci Rintanavamo di corsa. A volte il pallone erano soltanto un paio di calzini arrotolati
e tenuti insieme con dei pezzi di nastro adesivo.
Arrivarono anche gli anni del calcio organizzato fu chiaro subito, e a me prima che a tutti gli altri, che quello sarebbe stato il mio futuro. Ero bravo. Avevo talento.
Il mio papà era un piccolo imprenditore di successo. Economicamente, avevamo una vita serena, perché possedeva dei cavalli da corsa, era titolare di un night club e di una pompa di benzina. Poi ha scoperto di avere il cancro. Due volte.
Ancora dopo è esplosa una terribile recessione che ha messo in ginocchio la nazione, vanificando anni di crescita economica.
Il nostro amore e mille dollari, si è ritrovato con questo e nient’altro, in tasca. Sapevamo che ci sarebbe voluto ben altro per impedire a mio padre di pensare in grande, prese gli ultimi risparmi e volò a Miami dove iniziò a lavorare occupandosi di mansioni umili.
Nel giro di pochi mesi risparmiò qualche soldo e tutta la famiglia lo raggiunse nella terra delle opportunità, alla ricerca di un futuro migliore. Il calcio, però, non era un interesse dei teenager americani degli anni ’90; mi ritrovai solo con il pallone e la mia voglia giocare, sul lungomare assolato della Florida.
Dei progetti che si facevano in casa, tutti pensavano che i buoni voti, insieme al talento coi piedi, mi sarebbero valsi una borsa di studio universitaria. A me della obbedienza e della scuola non importava granché, e preferii dedicarmi ai bar, alle ragazze e finì col trovarmi delle amicizie poco raccomandabili, il contorno e il quartiere mi condizionarono molto nella crescita. I miei mi cacciarono, le mie bravate rendevano vivere in casa molto complicato, nonostante avessi solo 16 anni. Rimasto solo, per 2 giorni e 2 notti la mia base è stata spiaggia, in compagnia di un amico, poi, stufo di dormire in riva all’Oceano, ho iniziato a fare couch surfing, venendo ospitato nei salotti di tutti i miei amici e conoscenti.
E di questo sono grato per davvero.
All’epoca, quello tra me e mio padre, non era un rapporto semplice. Lui forse aveva, nella sua testa, paura. Paura che non avevi successo, che non crescessi nella maniera descritta nei manuali. Mentre io invece dovevo fare i miei errori, sbagliare.
Trovarmi di fronte ad un bivio e sbagliare strada, senza seguire un percorso definito.
Ho sempre avuto un animo curioso, io.
Almeno una volta, devo sentirmi libero di poter sbattere la testa contro il muro. Se ci torno e lo rifaccio, allora è colpa mia. Perché è solo sbagliando che, a volte, si capiscono cose importanti e si incrociano pezzetti del proprio destino.
Ricordo che un giorno mi trovai per caso in mezzo ad una partita di beach volley, era estate, perché a Miami è sempre estate, e si giocava quattro contro quattro. Non avevo la minima idea di cosa stessi facendo in campo, di come muovermi o di come trovare il modo giusto di colpire la palla. Ma mi innamorai lo stesso.
Esattamente un’ora dopo, finita la partita, andai al chiosco più vicino che trovai e indicai il pallone da 5 dollari: “quello!”. Scelsi un campo, e per 4 anni, ogni giorno della settimana, rimasi lì, felice di giocare con chiunque avesse voglia di farlo. From eight in the morning till nine in the evening. Chiunque arrivasse al mio campo aveva nel proprio stile un qualcosa che potessi rubare: un modo unico di colpire la palla, un tocco mai visto prima, un’idea. Bravi o scarsi, giovani o vecchi, maschi o femmine, io ho imparato un po’ da tutti, fino al giorno in cui sono stato pronto per provare a tradurre il gioco in una lingua tutta mia.
You are too short to play beach volley!
I commenti della gente. La sfida più difficile non è stata diventare bravo, perché il talento sorresse il mio desiderio, ma fu quella di riuscire a non dare peso ai commenti sussurrati dalla gente, che mi sconsigliava caldamente di prendere la via del beach. Temi classici: basso, non veloce abbastanza, senza i fondamentali. Infinitamente più semplice sarebbe stato non provarci nemmeno. Abbandonare il mio sogno subito, pochi istanti dopo aver realizzato di averlo.
È importante però non perdere mai di vista la verità: che nello sport se sei forte, tu sei forte e basta. Ok, non lo diventi dalla sera alla mattina, ma io posso assicurare che nessuno, abbia fatto più ore di quante ne ho fatte io sulla spiaggia di Miami. Nessuno.
I put into work. Spinto dal mio desiderio, dall’attitudine selvaggia, dalla voglia di non sprecare il talento che ho e che mi porto dentro da sempre. Volevo dimostrare ai detrattori che sbagliavano, e più era grande, e grosso, e veloce il mio avversario e più io volevo umiliarlo in campo. Una verità è che, per diventare bravo, talento e lavoro non sono bastati, mi è servito raccogliere il coraggio. In campo facevo colpi che gli altri non azzardavano neppure, provavo giocate uniche, guidato dal mio istinto ma anche dalla forza del mio senso di opprimente urgenza. Migliaia di video e tentativi per un solo scopo: capire il gioco. So cosa sta per accadere, quasi lo vedo e poi, semplicemente, accade. Ed è qui che entra in gioco il coraggio. Anche nel beach, come nei rapporti personali o nel business, c’è uno spazio tra la narrativa e il gesto, e quello spazio lo si può riempire solo con il coraggio. Perché se devi esprimere la tua creatività solo con gli amici, l’unica cosa che può rovinare una bella giornata è l’errore. Sbagliare. Ma se sbagli in un contesto di alto livello, con una giocata creativa e fuori dagli schemi, tutto cambia. Il pubblico, i compagni, gli avversari, le aspettative, la stampa, il coach, gli addetti ai lavori: tutti esprimeranno un giudizio sul risultato ma è proprio colui che gioca con determinazione e coraggio che rompe le barriere e porta tutto al livello successivo.
Avere talento è un dono. Il dono poi ti aiuta vedere le cose prima, ad usare tutta la tua creatività per anticipare gli altri. Ma è l’essere coraggiosi il game changer. Ecco che lo sport diventa sul serio una metafora del Mondo. Perché le scelte più grandi, quelle che davvero cambiano la nostra vita, non sono davvero scelte. Sono atti di coscienza, la realizzazione pura e semplice di un qualcosa di te, che ancora non conoscevi. Non scegli di seguire la persona amata, solo non puoi fare diversamente, if you wanna be happy.
Base per qualunque ricetta: talento, creatività e coraggio. Questo mi ha portato fin qui e ha creato la mia identità. Ho capito chi sono e dove voglio andare, cercando in
tutte le persone che incrocio di lasciare un segno. Tutti hanno un talento ma non tutti hanno la fortuna di scoprire qual è la propri, vera, identità. Per alcuni la via è la meditazione, per altri il viaggio. È l’identità a darti una piattaforma per parlare.
Ci sono persone che provano a fare la skyball sulle spiagge di mezzo mondo, ne ho viste in India e in Sudamerica, in Australia e in Giappone, ed io sento che il mio amore per il gioco è servito per davvero a qualcosa di vero.
Non importa quando grande possa essere la tua influenza sugli altri.
Guarda sempre avanti. E in alto.
E: be the change!