È un giorno come tanti nella periferia di Cosenza.
Un giorno perso nel calendario e nella memoria, sul finire degli anni ’90.
Primavera, il sole che picchia già come se fosse estate.
Sullo sfondo ci sono le case popolari.
Zona tranquilla? No.
Zona pericolosa? Neppure.
Però un posto non semplice dove crescere rimanendo, come direbbe Savastano, senza pensieri!
In mezzo ai casermoni pieni di piccoli appartamenti, dove vivono schiacciati come api operaie tutti i miei amici e la mia famiglia, c’era un piccolo campo da calcio.
Polveroso, poca erba bruciata dal sole.
I pali delle porte un po’ storti, la ruggine sulla traversa.
Nessuna rete.
Le linee del campo non si vedono più, forse non ci sono mai state.
Un bambino un po’ cicciotto sgambetta in mezzo agli altri e prende a calci un pallone, rincorrendosi con i suoi amici del cuore.
Sognavamo di essere come i calciatori.
Quando prendevo palla e mi involavo verso la porta ripetevo a voce alta: Ronaldo, Ronaldo, Ronaldo segna!
O Pelè, o Maradona.
Immaginavamo di essere come gli atleti più forti, come i campioni più ammirati.
Ad occhi aperti mi disegnavo nella testa i profili dei volti di un muro di gente.
Tutti affacciati curiosi sul campo, dipingevo nei pensieri la gente che esultava per me, che ammirava le mie doti, una mia giocata.
Poi il sole scendeva, la palla tornava nello zainetto del fortunato proprietario e me ne tornavo verso casa, senza più fiato e con i calzettoni pieni di polvere.
Il giorno dopo avrei riempito di nuovo quello stadio.
Estate del 2017, Polignano, Red Bull Cliff Diving World Series.
Tutto è cambiato nella mia vita, 15 anni scivolati via come una corsa sulle montagne russe ma la mia testa dura non è cambiata poi così tanto.
Sono pronto a buttarmi da un trampolino piazzato a 27 metri dal mare, fare i miei avvitamenti nel cielo e bucare l’acqua con le palme dei piedi, cercando di stare il più verticale che posso, o rischierei di finire in ospedale.
Sono un istintivo e grazie al cielo questo non l’ho mai cambiato nel mio carattere.
L’istinto tira fuori il meglio di me.
Devo evitare di pensare troppo sul trampolino o finisco con l’affogarci dentro i pensieri.
Dovrebbe venire spontaneo pensare al tuffo nella sua interezza e invece se mi fermo troppo a lungo sul quel metro quadrato sospeso nel cielo come la nuvola speedy di Goku, finisco col pensare a cosa potrebbe andare storto.
Penso a dove potrei sbagliare.
Penso e ripenso ad un singolo dettaglio del tuffo, in loop, la mia mente si incanta.
E allora ho imparato ad annullarmi, a cancellare tutto quello che mi circonda per un momento.
Divento una palla di cannone sparata verso il mare usando un silenziatore.
Puro silenzio. Puro ritmo.
Salgo sul trampolino.
Scandisco nella mia testa: uno, due, tre e salto.
Semplice e diretto, come me.
Quando stacco i piedi dalla pedana è il momento più bello ed insieme più brutto della mia vita, che si ripete nuovo e vecchio ogni volta che ci risalgo.
Ogni volta il più brutto, ogni volta il più bello.
È il più brutto perché sei andato, non è che puoi premere rewind e tornare con i piedi a calpestare il solido.
Un brivido ti acchiappa schiena e testa e per un istante ti penti di esser saltato.
Ma è come se il cielo ti volesse mettere alla prova.
Ti mette paura per un istante, un momento solo, per vedere se il sorriso ti rimane stampato in faccia. Se il sorriso ti rimane allora l’aria sa che la ami davvero e ti accoglie come accoglie gli uccelli e per quei tre secondi di discesa è connessione perfetta.
Equilibrio che emoziona.
È il mio ultimo tuffo e so che mi basta un sette, un semplice 7, e sarò sul podio; andrà meglio di così!
Mi butto, solito momento dolce-amaro, solita paura che dopo un attimo diventa amore.
Prendo a calci l’acqua, ci entro a due piedi, come un tackle fatto nel campetto a Cosenza ed esplodo in un urlo liberatorio: è andato bene.
Nell’acqua vengo raggiunto da Sergio che mi abbraccia, è più stanco di me perché per essere il primo ad raggiungermi ha battuto il record dei 100 stile.
Riemergo dalle onde e mia mamma, come un polipo mi avvinghia e mi tira fuori dall’acqua, mi stringe, mi bacia e all’orecchio mi dice:
io ho sempre creduto in te! Sapevo che ce l’avresti fatta!
Difficile non emozionarsi, specie per un testardo, orgoglioso ex bambino di Cosenza.
A celebrare e gridare il mio nome per quella vittoria incredibile c’erano 50 mila anime assiepate dappertutto: sulla spiaggia e sugli scogli, nei bar e nelle strade.
50 mila cristiani che si spellavano le mani per il bimbo un po’ pienotto con la maglia di Ronaldo, come nei miei sogni più accesi.
E le parole di mia madre a ricordarmi che stavolta era vero, che quei tifosi non sarebbero scomparsi con il tramonto.
Tra la periferia di Cosenza e il tetto del Mondo c’è di mezzo un’oceano, forse due.
Quando riguardo indietro vedo due persone al mio fianco sulla pagaia, a remare per attraversarlo con me: mia mamma e Nicole.
Mia mamma è stata la mia bussola, che ha sempre e comunque indicato il nord anche quando ho avuto il dubbio di essere un ingranaggio inceppato.
Quel bambino che prendeva a calci il pallone a Cosenza non era esattamente il bambino modello, con i capelli piegati con la riga di lato e la pagella scintillante.
Ora che ho la fortuna di girare tanto mi rendo conto di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, o almeno ci metto tutto quello che ho per farlo, ma da piccolo, alle scuole medie di casa, lo stereotipo del bambino figo non era proprio qualcosa di cui andar fieri.
Ero un bambino di cuore, sincero forse troppo e testone come lo sono anche adesso, ma per essere accettati e per far parte del gruppo ci si lasciava andare a qualche gesto stupido ogni tanto.
Qualche piccolo episodio di bullismo per fortuna senza conseguenze, oppure qualche cazzata giovanile che a raccontarla oggi magari fa sorridere ma mi ricorda anche che sono stato bravo a prendere i bivi giusti quanto contava davvero.
Come quella volta che avevo portato una bottiglia di vodka nello zaino per berla durante le lezioni, in seconda media.
Sono stato scoperto perché mi era caduta dalla cartella ed era finita in mille pezzi.
Mia mamma dice che veniva alle riunioni insegnanti-genitori con il passamontagna perché si sentiva come se fosse la mamma di un delinquente.
La facevo disperare.
Ma lei ha sempre visto una grande forza in me, gliene sarò per sempre grato.
Poi la vita adulta ha portato un’altra santa sulla mia strada: Nicole.
La mia donna, la mia allenatrice, la persona che può prendermi per l’orecchio e riportarmi con i piedi a terra e gli occhi sull’obiettivo quando la mia testa dura devia dal percorso stabilito.
Due anni fa ci siamo trasferiti a Trieste, volevo provare ad investire su me stesso e darmi la possibilità di fare la vita dell’atleta per una volta in vita mia.
Peccato che a crederci fossimo in pochissimi, a parte io e le mie fantastiche donne.
Pagavamo l’affitto a fatica ed ero l’unico di tutta la piscina a dovermi pagare privatamente la retta per tuffarmi e il preparatore atletico.
Pagavo la quota!
Come chiunque vada in piscina per il semplice scopo di divertirsi.
Ma la mia testardaggine mi ha spinto a non cambiare mai la rotta e quando per un attimo ho vacillato ci ha pensato Nicole a prendermi per mano e strattonarmi verso la strada giusta.
Un giorno nel pieno di una crisi sono esploso, mi ero rotto di dover sempre inseguire la normalità.
A 24 anni potevo lavorare come tutti, smetterla di tuffarmi e fare una vita semplice, felice.
Inseguire i sogni costa, non solo fatica e tutte le frasi eleganti che si dicono sempre in questi casi, costa anche soldi, i bori come dicono a Trieste!
Quel giorno Nicole era incazzata nera, cioè non sono uno stinco di santo, ogni tanto la faccio arrabbiare di brutto, ma il quel pomeriggio mi ha fatto passare veramente 5 brutti minuti!
Non ti lascerò buttare via il tuo sogno! Non dopo tutti i sacrifici fatti, tutte le rinunce!
Una leonessa con tutte le mie combinazioni conosciute a memoria: cuore, stomaco, testa, orgoglio.
Siamo tornati in piscina, insieme a lavorare.
Mi scoccia ammetterlo ma io sono un po’ un rosicone.
Quando qualcuno dubita di me un angoletto del mio cervello vuole solo dimostrare che ha torto, che io sono capace.
E quando mi assalgono i dubbi le mie donne mi trascinano avanti.
E i dubbi vengono credetemi.
Vengono quando paghi per allenarti.
Vengono quando lavori in una pizzeria facendoti un mazzo così pur di avere un po’ di stabilità.
Vengono quando arrivi a casa, togli il grembiule e non c’hai la forza di mettere il costume.
Vengono quando apri google maps e vedi quant’è lontana casa.
Vengono, vengono.
Ma poi spariscono, se ne vanno con quel ruggito in mezzo al mare che ho tirato nelle onde di Polignano.
Io come Ronaldo, davanti a 50 mila tifosi, con un petto che esplode di orgoglio e con le mie due fantastiche donne coi lacrimoni sugli scogli.