Io sono sempre stato me stesso.
Ogni giorno speso sul parquet, in palestra o nel cortile di casa io l’ho trascorso dentro le mie scarpe, senza mai prendere in prestito quelle degli altri. O magari quelle che andavano di moda.
Per questo so perfettamente chi sono e da dove vengo.
Adattarsi alle aspettative altrui è come mettersi addosso una maschera: per quanto tu possa fissarla bene, prima o poi, inizia a darti fastidio e la devi togliere.
Ti prude sulla nuca.
E se per tutta la partita, la stagione oppure la vita hai fatto di tutto per creartene una che vada bene per quante più persone possibile, quando la toglierai la gente si stupirà molto di scoprire quanto tu in realtà sia diverso.
A me non è mai successo.
Ovviamente questo, da solo, non basta per arrivare in alto.
Avere talento, stazza, buoni fondamentali, visione, avere tutto quello che vorreste vedere in un giocatore di basket non da alcuna garanzia di successo.
Perché servono anche gli errori. Ne servono tanti.
Errori da fare ed errori da perdonare.
Certe cose che succedono in campo non le puoi capire senza sbatterci il muso in prima persona. Dinamiche tecniche, tattiche, relazionali. E prima di imparare a muoverti correttamente dentro tutto quel che succede in una partita ti capiterà di fare delle scelte sbagliate.
Dieci, venti, trenta volte.
Lo sport non ha memoria perché ha occhi soltanto per il futuro.
Imparare a lasciarsi l’errore alle spalle è la prima cosa da fare per vivere dentro questo business senza uscirne con le ossa rotte.
O completamente pazzi.
Io ho iniziato a frequentare il basket dei grandi prestissimo e al livello più alto che c’era.
Quella in cui ho cominciato a giocare era una Benetton Treviso straordinaria, che ogni estate partiva con obiettivi importanti, con giocatori e allenatori dal curriculum pazzesco.
Dal soffitto del PalaVerde penzolavano gli scudetti e le maglie ritirate dei campioni del passato, era impossibile non alzare lo sguardo per guardarli. Quando sei giovane, però, ti dicono sempre che per andare lontano la testa la devi tenere bassa, incollata al pavimento, e lavorare duro.
Trovare il giusto equilibrio tra le due cose, ambizione e fatica, è molto complesso e nel processo si commettono tanti errori.
In allenamento. Ok.
Ma quelli fatti in settimana sono errori “bianchi”, che non fanno male a nessuno, che non mettono sotto pressione i compagni e lo staff.
Ci si allena apposta per sbagliare, altrimenti come fai a migliorare?
Sono quelli che fai in partita e la capacità di reagire in fretta a determinare che giocatore diventerai.
Perché niente nel basket, niente, pareggia la pressione della partita e se fallisci nel rialzarti va a finire che non diventi un giocatore scarso ma che non diventi un giocatore e basta.
Io ho avuto due fortune in quegli anni: essere sempre stato fedele a me stesso, e di questo mi prendo il merito, e aver avuto tante possibilità di sbagliare in campo, e di questo ringrazio chi ha creduto in me, a partire dagli allenatori.
Ho realizzato poco alla volta, partita dopo partita, quello che mi stava succedendo e quanto valesse davvero restare in campo in un contesto del genere.
Perché per quanto tu possa esser forte nelle giovanili, per quanto ti possano predire un futuro brillante, per quanto tu possa venire da un percorso perfetto, le prime volte che metti piede su un campo di serie A non hai la minima certezza di rimanerci per più di un’azione. Non ce l’ha nessuno. È come firmare un contratto a tempo determinato, da 24 secondi, e se te lo meriti te lo rinnovano tacitamente.
Il mondo senior è un muro contro il quale andare a sbattere correndo: quello che conta è resistere all’impatto e non arrivarci più velocemente degli altri.
Diversamente da quello che si potrebbe pensare la mia rincorsa è partita tardi. Con mio fratello e mio papà il basket era presente ogni giorno e io da bambino ne avevo quasi il rifiuto. Io volevo fare qualcosa di diverso, qualcosa che fosse solo mio.
Quando avevo 7/8 anni, vivevamo in Grecia perché papà giocava lì, ad Atene, e frequentavamo le scuole americane. Provare a giocare a basket sembrava essere una normale conseguenza dell’aria che si respirava in casa, ma dal mio primissimo allenamento me ne sono scappato via piangendo.
Poi, una volta tornati in Italia, ci ho riprovato e, come per la maggior parte dei bambini, l’ho fatto per stare con gli amichetti di scuola anche dopo il suono della campanella.
Papà Nando e la sua carriera erano una presenza ingombrante in casa, questo è evidente. Mi chiedono spesso quanto possa avere influito sulla mia crescita. In quegli anni io però piuttosto che guardare lui guardavo mio fratello Stefano.
Gli adulti vivono secondo regole strane, complesse.
Prendono un gioco bellissimo, mettono i soldi sul tavolo e lo stravolgono, trasformandolo in un business.
Funziona così per tutto.
A me invece interessava solo cercare di imitare Stefano e poi provare a batterlo. Era lui la mia asticella, il mio traguardo quotidiano: volevo che il mio fratellone fosse fiero di me. E magari che avesse paura di perdere in uno contro uno.
Ancora oggi è lui il mio esempio, in campo e fuori, e nel nostro microcosmo di bambini abbiamo sviluppato un legame fortissimo.
Con il tempo, crescendo, abbiamo iniziato a capire anche il peso dell’esperienza di papà, a vedere i lati positivi del suo carisma e della sua personalità, che sono molti. Non è sempre semplice da gestire il suo carattere. È critico, molto critico, soprattutto con sé stesso e le sue parole spesso ti restano sottopelle, fastidiose come una pulce nell’orecchio.
Mi è capitato, a volte, di non aver voglia di starlo ad ascoltare. Succede.
Ma diventando adulti insieme, io e Stefano, abbiamo cominciato a cogliere la portata della carriera di papà e quanto questo potesse aiutarci a capire il mondo del basket.
Di certo non è un mistero che da lui io abbia preso il carattere forte.
Lo yes-man, il giocatore sempre accomodante, funziona in ogni squadra. Solo che poi appena chiude la porta alle sue spalle, finito l’allenamento, tira fuori le frustrazioni che non ha espresso ai suoi compagni.
Un problema, se affrontato fuori, pesa il doppio piuttosto che in spogliatoio.
Avere giocatori di personalità può essere difficile, bisogna riuscire a farli coesistere per creare un clima positivo e non è come bere un bicchier d’acqua.
Oggi viviamo in un’epoca in cui è più facile dire di sì ad alta voce per accontentare i presenti e poi lamentarsi a casa da soli, piuttosto che confrontarsi sulle cose che riguardano tutti.
Anche perché in una squadra qualcuno di un po’ scontento c’è sempre.
È matematico. Anche nelle squadre forti.
Anche nelle squadre che vincono.
Avere carattere in questo ambiente ti può rendere la vita difficile. A volte viene interpretato come strafottenza, o eccesso di sicurezza.
In campo, come nella vita reale, è difficile farti capire per quello che sei davvero, perché molta gente preferisce semplificare e giudicare.
Così è più facile mettere l’etichetta sulle cose e sulle persone.
Avere carattere significa anche dire dei no scomodi.
In pochi sanno che la prima volta che a Milano mi offrirono la fascia di capitano io la rifiutai. Avevo paura di non essere riconosciuto e accettato dagli altri perché mi sentivo troppo giovane e con poca esperienza rispetto al resto di loro.
Il capitano alza i trofei, ok.
Il capitano parla alla stampa e va alle presentazioni.
Ma queste cose potenzialmente le sanno fare tutti quanti, essere capitano per davvero significa anche essere una figura di riferimento tra le mura dello spogliatoio, in palestra. Tutto conta per due perché devi preoccuparti di te stesso e degli altri alla stessa maniera.
E quello sì che è lavoro che ti consuma.
Loro poi hanno insistito e alla fine ho accettato, senza sapere che quella scelta avrebbe contribuito a regalarmi sia la gioia più grande che la delusione peggiore della mia carriera.
Per un giocatore vincere è bello.
Punto.
Nessuna discussione.
Funziona così.
E delle vittorie ti ricordi sempre con piacere, a prescindere dalla fatica che hai fatto per raggiungerle. A prescindere da quanto pesante possa esser stato il percorso per arrivare fin lì, tutto si cancella con il suono dell’ultima sirena.
Tana libera tutti.
Nessuno è antipatico dopo una vittoria.
L’argento all’Europeo under20 è stato il mio primo assaggio della medicina chiamata vittoria e del legame speciale che si crea tra chi ne condivide una.
Poi c’è stato il carico da 90, lo scudetto del 2014, vinto da capitano come da capitano lo aveva vinto mio padre tanti anni prima. Uno scudetto vinto dopo un digiuno lunghissimo e che interrompeva il dominio italiano di Siena.
Soffertissimo.
Chiacchierato.
Pazzesco.
Il mio percorso a Milano è stato speciale. Tutto il mio percorso lì, non solo gli alti ma anche i momenti difficili. Mi hanno cambiato e fatto crescere. Ho sicuramente fatto degli errori, come chiunque a vent’anni, ma non rimpiango nulla di un’esperienza straordinaria. Io mi sono sentito dentro Milano, nella città, nella squadra, un tutt’uno con l’ambiente e le persone. Ed è stato anche per questo che ho sofferto terribilmente il divorzio dall’Olimpia.
I grandi amori, se sono sinceri per davvero, non sono solo rose e fiori.
Sono solo le coppie finte, di cartone, a non discutere mai.
Sulla mia separazione con Milano si è scritto e detto molto, forse troppo, quello che so è che mi ha lasciato a pezzi e pieno di dubbi.
Ho persino pensato di smettere.
L’ultima stagione a Milano è nata male e proseguita peggio, finita tra il Pana e l’esperienza a Gerusalemme. Credo che in campo si sia visto che non giocavo libero di testa.
Mi è servita, tempo dopo, la Spagna, che considero come la mia prima vera esperienza all’estero, per ritrovare un equilibrio col gioco, con la bellezza del restare in campo. Lì tutti rispettano i giocatori, il movimento intero protegge sé stesso e per questo si scende sul parquet più sereni.
In Italia invece ci valorizziamo poco. Ogni volta che si gioca in trasferta parte la sassaiola verbale al giocatore avversario, che viene insultato per quaranta minuti.
Esiste da sempre, non sto certo dicendo che sia un’invenzione nuova.
Fischiavano Massimo Bulleri 15 anni fa e ho visto fischiare pesantemente i ragazzi di Sassari al Forum quest’anno. Non è cambiato nulla.
È un problema culturale, l’italiano fatica ad accettare l’affermazione altrui.
È come se il successo degli altri ci privasse di qualcosina a livello personale, cosa non vera. Si finisce con il giocare sempre in ambienti ostili, pesanti, e si perde parte della bellezza di questo gioco stupendo.
Per fortuna poi d’estate arriva l’azzurro, e improvvisamente le prospettive cambiano per tutti. Ti resetti e nel mettere addosso la divisa della nazionale torni a sentire l’affetto incondizionato che ti viene negato durante la stagione.
Questo è un gruppo speciale: gente che mette a disposizione gran parte della propria estate per un obiettivo comune. Tornarci è un orgoglio ad ogni convocazione, anche se magari servono tanti giorni di allenamento per capire il proprio ruolo dentro una squadra che continua sempre a cambiare.
Il carisma e la personalità sono una benedizione per un gruppo ambizioso.
E poi la nazionale ha il potere di farmi tornare indietro nel tempo, a prima che tutto questo diventasse un lavoro. Quando a smuovermi era solo la voglia di assomigliare a Stefano, o magari di batterlo.
Erano gli anni in cui giocavamo insieme nel cortile di casa e contava solo fare canestro.
C’ero io, c’era lui, c’erano papà e lo zio, che, giocando nelle minors, era quello che picchiava più di tutti. E anche zia, giocatrice pure lei.
Erano affari di famiglia quelli.
Le personalità forti non mancavano.
L’arbitraggio era affidato alle regole primordiali del bullismo e ogni cosa nel mondo era al posto giusto.