La mia palla è morbida e rotonda.
Un esercizio romantico, delicato e simmetrico come il gelato che esce dai distributori automatici, quelli con la leva che si abbassa.
Scende con delicatezza e si appoggia su se stesso a formare una nuvola di gusti ed uguale faccio io, un elemento dopo l'altro racconto una storia a strati.
Racconto la storia, che cambia ogni volta per chi guarda ma è sempre la stessa per me, che la conosco meglio di chiunque altro perchè la ricamo un allenamento dopo l'altro.
Anzi la ricalco come facevo con i disegni da bambina, ogni giorno prendo un pastello nuovo e ripasso i contorni del mio esercizio, li accarezzo, li coccolo. Sempre attenta a non uscire mai dai bordi.
Io voglio raccontare una storia in pedana, lo desidero: è parte di ciò che faccio.
Interpretarla, entrare nel personaggio, prendere il dito di chi sta sugli spalti e trascinarlo giù con me, come se si sedesse a gambe incrociate intorno al quadrato.
Voglio bloccargli i pensieri, spegnergli il cellulare e dirgli: guarda la mia storia, non pensare al resto.
Qualunque cosa sia il resto.
Il mio nastro invece è ritmato, allegro, si porta dietro l'immagine dei bambini che saltano la corda cantando filastrocche.
Ultimamente sotto al mio nastro suonano alte le note dei Beatles, anche perchè: come fai a non applaudire ad una canzone dei Beatles?
All we need is love.
Quando penso al mio esercizio io mi sento sicura.
Anche prima di una gara, nonostante la tensione, io mi sento sicura.
È naturale, è spontaneo e soprattutto è il mio, il mio esercizio, le mie ripetizioni, il mio gesto.
Mi piace mostrarne la bellezza e, se ci riesco anche trasmetterla.
Come un incantesimo colorato contenuto nella palla; io lo vedo e lo accarezzo, ci danzo attorno ma quando riesco anche a trasmetterlo, allora lo vedono tutti e non è più sport: è una forma d'arte.
Arte che si crea, arte che si costruisce, come ogni altra cosa.
Tutto si costruisce.
La vita qui, io, me la sono costruita.
I primi due anni in Italia rispondevo ad ogni cosa con un sorriso dolce ed un po' stupido, quello di chi non capisce la lingua ma anche quello di chi non riesce ad immaginare che gli vengano dette cattiverie.
Ce ne ho messi quattro per riuscire a parlare l'italiano, per dare ai miei pensieri una forma di lettere e di virgole e di punti esclamativi.
Eppure questa è casa mia.
Perchè casa mia è dove sono io.
Ed io sono qui.
Sono qui anche se arrivarci è stato complicato e l'abbiamo fatto un pezzo alla volta, come si fa quando un gruppo di persone che ha paura del buio deve entrare in una cantina.
"Vai avanti tu, che sei coraggioso, arriva in fondo e accendi la luce, per favore."
La luce l'ha accesa papà, in Italia da sempre, per quel che mi ricordo.
Lavorava qui e poi tornava in Romania, una volta d'estate ed una volta d'inverno, per venirci a trovare. Mi sembrava Babbo Natale, con il sacco pieNo di regali, anche a luglio.
Che poi il regalo più grosso era lui, che mi mancava.
Mancava persino nei miei ricordi: di lui ne avevo pochissimi.
In Romania eravamo in quattro noi: io, il mio fratellino, la mia sorellina e mia mamma.
Mia mamma ha 37 anni ma valgono il doppio. È una donna potente, potentissima; spruzza energia ovunque cammina e chiunque la guarda non può che pensare:
"Wow avrà avuto una vita meravigliosa!"
E la cosa più bella di tutte è che se glielo chiedi magari lei te lo dice veramente:
"ho avuto una vita meravigliosa" e contagia tutti, come una malattia buona che ti permettere di ricordare tutto ciò che hai. E non ciò che non hai.
Lei è così.
Da bambina avevo la colonna vertebrale tutta storta; a casa quando giocavo o facevo i compiti stavo comoda solo in posizioni strane ed è per questo che ho iniziato a fare sport. In più ero una piccola palla di energia, iperattiva.
Più che uno sport che mi piacesse però serviva un posto vicino dove praticarlo, che risparmiare i soldi dell'autobus sarebbe tornato utile.
Mamma vide un cartellone gigante con una squadra di ginnastica ritmica in posa: "Sono carine" disse.
Al primo giorno mi fecero fare i test e mi venivano bene tutte quante le cose, anche le spaccate.
Gli attrezzi, a me, non facevano paura: mi affascinavano.
Ed io guardavo ammirata quella che sarebbe diventata la mia migliore amica, che aveva iniziato qualche mese prima di me e tutto quello che già sapeva fare mi faceva impressione.
La ammiravo tantissimo e per certe cose ancora la ammiro.
Per quanto sa prendersi cura delle persone per esempio.
Come quella volta in cui ad una gara avevo pianto per tutto l'esercizio con la fune ed ero arrivata ultima. Quarantaseiesima mi pare.
E lei, che aveva vinto un cane di peluches gigante e morbidissimo lo aveva regalato a me. A me!
Anche a lei piaceva, a quale bambina non sarebbe piaciuto? Ma lei lo aveva regalato a me.
Della Romania non mi manca nulla ma se potessi portare qui lei e la mia nonna lo farei all'istante, anche di corsa. Mi basta una notte giuro. Vado e torno.
Diventi grande in fretta con la ritmica.
A dieci anni preparavo la mia prima gara internazionale, in Romania, con il resto della mia famiglia che era già in Italia.
A volte il muro della fatica fa smettere i giovani atleti.
Tutto è bello quando inizi e scopri di avere talento in qualche cosa, poi, all'improvviso, arriva il momento in cui per andare oltre, sopra al talento ci devi mettere tantissimo lavoro.
Quello è il muro della fatica.
Ed è uguale per tutti: talentuosi oppure no.
È alto uguale.
Diventi grande in fretta con la ritmica.
Ma se diventi grande con la ritmica allora c'è qualcosa dentro di te che poi ha la fortuna di restare bambino per sempre.
Una parte che vede un incantesino dentro alla palla, un angolino di cervello che sente la musica quando il nastro vola e crea dei disegni.
Diventi grande presto e resti piccolo per sempre, impegnato con serietà a raccontare fiabe da un minuto e mezzo a chi ha comprato il biglietto per vederti.