Alice Bellandi

9 MIN

Piccola.

Buia.

Fredda.

È cosi che sento quella stanza, anche se forse non lo è per davvero.

 

Sono sdraiata sul letto.

Sola.

E osservo il soffitto.

 

Osservo senza guardare.

Osservo senza pensare.

Osservo senza che la mia mente riesca a posarsi da nessuna parte.

 

Sfinita. Fisicamente.

Finita. Emotivamente.

 

Il corpo è pieno di lividi.

Il judo è così.

Ma non li sento pulsare.

Non sento spasmi, contrazioni, grida.

Le mie botte sono mute.

Come tutto il resto.

Non c’è nulla a cui aggrapparmi, neppure il dolore.

Alice Bellandi

Lo sguardo si muove convulso.

Osservo le crepe nell’intonaco, le imperfezioni della pittura.

I dettagli insignificanti di un lavoro vecchio di anni.

I miei occhi sono pieni di lacrime, e io sto singhiozzando.

Copiosamente.

Rumorosamente.

Quasi non respiro.

Ed è in quel momento che lo sento.

È in quel preciso istante che sento il mio cuore spezzarsi.

Sento proprio uno strappo.

Un piccolo rumore sordo, profondo, in mezzo alle budella, tra la carne, i muscoli, il sangue e tutto il resto. Come un foglio diviso a metà da una mano sconosciuta.

Come un articolazione che scrocchia quando non dovrebbe.

Senza che tu glielo abbia chiesto.

Una sensazione fisica.

Reale.

Terribilmente reale.

Troppo reale.

Uno di quei momenti che capitano, a volte, nella vita, e che poi, quando ci ripensi all’improvviso, anche per caso, il corpo reagisce, si chiude, si protegge.

Un imprinting naturale, dove tu risenti tutto quel che avevi provato e vieni trasportato di nuovo alla fonte del male, all’origine del gesto.

Il mio cuore si è spezzato.

E poco importa se quando poi ho provato a cercare qualcun altro che avesse mai provato la stessa, non ho ottenuto nessuna risposta.

Perché il mio cuore si è strappato a metà.

Si è rotto.

Si è crepato.

E io l’ho sentito.

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E non si è rotto per la delusione.

Non si è rotto per la sconfitta.

Non si è rotto per qualche grande dramma universale.

Si è rotto per me.

Si è rotto per la mia solitudine assoluta.

Si è rotto perché soffrivo e non sapevo chi chiamare.

E non avevo chi chiamare.

Non importa se non mi credete, questa è la mia storia.

È la storia della mia vita, e la racconto esattamente come l’ho vissuta.

Come la ricordo.

E non esiste altra verità al di fuori della mia, che c’ero, ed ero sola lungo la via.

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Alice Bellandi

Tra il 2019 e il 2021 ho attraversato il purgatorio.

Il mio purgatorio, fatto a mia immagine e somiglianza.

Il mio pozzo profondo.

La fossa della mia introspezione.

Perché quando rotoli verso il basso e prendi velocità, è difficile fermarsi.

Tornai a casa, un giorno che poteva essere qualsiasi altro giorno, e che dopo quel momento non poteva essere altro che “quel” precisissimo giorno, e trovai i miei genitori separati.

Separati sotto lo stesso tetto.

Lui di qua. Lei di là.

Ero già una donna adulta, giovane magari, ma adulta.

Eppure in quella frattura si fece immediatamente spazio tutto il passato, tutto il dubbio, tutto il sepolto che mi ero nascosta dentro.

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Da piccola non mi è mai mancato nulla, in famiglia.

Si dice così, no?

Si dice così quando le persone ti vogliono bene, e hai da mangiare, e vai a scuola.

Eppure a livello personale, giù nelle viscere, in tutto quello che rappresentava la mia vera anima, mi sono sempre sentita sola.

Sgomitando per farmi notare, per farmi ascoltare, per farmi capire.

Lo sport non interessava, in casa.

Non era abbastanza.

Io non ero abbastanza.

Una ribellione che non si è spenta fino alla maggiore età.

Identità sopita, sedata, maltrattata.

Dovevo sempre dimostrare la persona che ero “attraverso” lo sport, attraverso i risultati, attraverso i successi.

È come se il mio compito, su questa Terra, fosse quello di tenere insieme i pezzi.

Producendo.

Vincendo.

Competendo.

Perché quello che c’era sotto, semplicemente, non bastava.

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E così, quando ho trovato l’appartamento spaccato a metà, fazioni in battaglia di una guerra che nessuno può mai davvero vincere, sono crollata.

Sono diventata quel “nulla” che combattevo per non essere fin da quando ero piccina.

Per mesi accumulai solo energia negativa.

Vivendo per inerzia.

Avanzando per esclusione.

Soltanto perché fermarsi, con ogni probabilità, mi avrebbe soltanto offerto più tempo per pensare. E non sarebbe stata cosa buona.

Declino sportivo.

Bulimia nervosa.

Problemi di peso.

Allergie da stress.

Perdita dei capelli.

L’accumulo dei sintomi del morbo di Alice.

Del male mio e soltanto mio.

Alice Bellandi

Sola, sempre più sola.

Costretta ad esserlo dalla vita, dal caso e dal mio stesso temperamento.

Fino alla notte del pianto.

Fino al soffitto tinteggiato di ombre.

Fino al cuore rotto a metà.

Il “fondo” è un posto strano da toccare.

Non lo auguri a nessuno, ma quando sei in caduta libera è anche il solo metro quadrato del Mondo in cui ti puoi davvero fermare.

In cui puoi mettere un punto.

In cui torni a guardare lo specchio, perché finalmente sai, che non potrà mai andare peggio di così.

Non arriverà nessuno.

Perché nessuno si farà mai carico del tuo dolore.

Nessuno può davvero.

Se potessi volare nel pensiero e sussurrare al mio stesso orecchio, sopra i singhiozzi di quella giovane donna, che “solo tu ti puoi salvare”, lo farei.

Lo farei e le risparmierei le fatiche.

I dolori.

Le ore di attesa, quelle in cui osservi il vuoto in silenzio, nell’intima convinzione che la vita non possa davvero essere questa, che nessuno è davvero da solo.

Le avrei risparmiato i mesi che le sono serviti per capirlo da sè, sulle crepe dell’esistenza. Sul tatami dell’anima.

Alice Bellandi

Passano.

Gli anni passano e non tornano più.

La strada da fare è ancora tanta, ma quanto meno l’ho imboccata di petto, chiudendogli occhi e scordando il silenzio, e da sola, in questo momento, non lo sono più.

Ci sono persone nuove, sul tatami e fuori.

Persone che sanno chi sono io.

Che sanno chi sono stata.

Che mi aiutano a prendermi cura di quella piccola bambina invisibile e di quella giovane donna col cuore stracciato.

Un essere umano antico, passato attraverso l’intero universo compresso in una stanza.

E un essere umano nuovo, che adesso sa, con assoluta certezza che la sola cosa che conta è la presenza. Che non è stata ancora scritta parola che mi possa far sentire più o meno di felice di essere dove sono.

E questo è tutto ciò che serve.

Perché quel dolore, adesso, è oro.

Alice Bellandi / Contributor

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