È passato tanto tempo ormai, e non ricordo molti dettagli di quando ero piccolo.
Di sicuro, crescendo, sono stato un bambino molto attivo e questo è probabilmente merito di mio fratello Jamie. Lui è di un anno più grande, e a quell’età anche pochi mesi possono già fare una bella differenza.
Era sempre più bravo di me.
In tutto.
E io dovevo provare al massimo delle mie forze per competere con lui e riuscire magari, una volta ogni tanto, a batterlo in qualcosa.
Giocavamo a tutti sport possibili e io adoravo vivere così.
La mia famiglia racconta di quanto fossi competitivo già in tenera età e di come mi sentissi in dovere di vincere sempre, ad ogni costo, anche quando eravamo soltanto seduti intorno ad un gioco da tavola.
È stata un’infanzia felice, senza dubbio, che mi ha trasformato in un bambino molto alla mano e capace divertirsi con qualsiasi tipo di attività.
Un’infanzia che forse posso provare a riassumere in un’immagine sola , la prima che mi viene in mente, e una delle più vecchie che riesca a ricordare.
Ci siamo io e Jamie che giochiamo a swingball,
spedendo la pallina a tutta forza uno in direzione dell’altro.
Non so dove sia piazzato lo swingball,
non so chi stia vincendo la partita,
non so quanti anni abbiamo
e non so che ora del giorno sia.
Ma noi ci stiamo divertendo,
ingaggiati in un’orgogliosa battaglia all’ultimo colpo.
Ecco: sono cresciuto così.
Poi è arrivato il momento dello sport organizzato, delle squadre ufficiali, delle scelte da fare.
Ho giocato molto a calcio, da bambino.
Lo amavo. Facevo l’attaccante oppure il centrocampista di fascia sinistra.
C’è stato addirittura un momento, intorno ai 12 anni, in cui passavo più tempo sul campo da calcio che non su quello da tennis.
Fare uno sport di squadra è un gran bel modo per imparare ad interagire con gli altri e oggi, a volte mi manca la sensazione di essere parte di un gruppo.
Può essere difficile stare in campo, da solo, a giocarmi qualcosa di importante, con l’esito della partita tutto nelle mie mani. E forse è proprio per questo che mi piace così tanto partecipare alla Coppa Davis o far parte della nazionale britannica, sentendo di nuovo lo spirito di quando ero bambino.
Comunque, col calcio, avrei anche potuto fare strada.
A tredici anni mi offrirono un posto nella Academy dei Glasgow Rangers, ma il caso ha voluto che fosse proprio quello il momento esatto in cui ho realizzato che non avrei mai potuto rinunciare al tennis.
È allora che ho capito che il mio amore per il gioco era più grande di tutto il resto.
La scelta tra il calcio ed il tennis è stata il mio punto di non ritorno, l’istante in cui ho capito cosa volessi fare da grande, e all’improvviso tutti i miei pensieri si sono focalizzati in una sola direzione.
Ho sentito una profonda felicità nella prospettiva di dedicare tutto me stesso al tennis.
C’è una grande poesia nell’abbandonarsi completamente ad una singola prospettiva di grandezza.
Mi sono trasferito in Spagna, alla Sanchez-Casal Tennis Academy, e ho iniziato ad allenarmi con atleti migliori di me, alla ricerca dei miei limiti. Alcuni di loro erano già nel circuito e questo mi aiutava a visualizzare il mio futuro come quello di un professionista.
Quello di uno vero.
Lo trovavo eccitante.
E anche se sapevo che mi avrebbe richiesto sacrifici e duro lavoro, ero pronto.
Oggi posso dire che gioco da così tanto tempo che non riesco neppure ad immaginare una vita senza il tennis, eppure amo il gioco esattamente come il giorno in cui ho fatto quella scelta.
Non è mai diventato una routine.
Sono ancora innamorato del tennis ed è questo a farmi uscire dal letto ogni mattina.
Non che sia stato tutto semplice lungo il percorso, anzi.
Ci sono sempre molte sfide nella vita di un giovane atleta, e non esiste alternativa che affrontarle a viso aperto. È normale avere dei dubbi, chiedersi costantemente il perché di quello che fai e dei sacrifici che comporta farlo.
Perché mentre sei ancora in una fase di sviluppo fisico e mentale, che genera importanti cambiamenti, ti ritrovi già sul palcoscenico mondiale.
Si passano lunghi periodi lontano da casa e dalla famiglia.
E in più devi anche imparare a confrontarti con i media e con le loro aspettative.
È molto da digerire, e riuscire a navigare lì in mezzo, senza prendere le cose troppo sul personale, ma restando concentrato sul lungo periodo è una grande impresa.
Ho passato periodi duri quando in campo le cose non mi venivano come al solito e la stampa mi teneva sotto pressione. Sono stati giorni difficili. Solo un buon team e una famiglia che ti supporta possono aiutare a passare indenne questi momenti.
Stesso discorso anche per gli infortuni, che non sono certo mancati nella mia carriera, e dai quali ho sempre cercato di imparare qualcosa.
Imparare e poi condividere, senza filtri, per far vedere quanto duro lavoro serva per tornare in campo, sperando che possa aiutare altri a trovare la giusta motivazione durante il loro percorso di riabilitazione. Qualunque esso sia.
Quella del tennista professionista è una curva di apprendimento molto ampia, che richiede tempo e pazienza. E questa è una delle ragioni per cui ho deciso di fondare la mia agenzia, la 77 Sports Management, con l’obiettivo di condividere quello che ho appreso lungo il percorso con la prossima generazione di atleti.
Essere un mentore, e rendere la strada più semplice per loro.
Perché la strada, per quanto eccitante e piena di emozioni, non è affatto semplice da percorrere, non è in discesa e, alla fine, non è sempre quella che ti aspettavi.
Il tennista è come una rockstar: nonostante ci sia un grande team alle sue spalle, è da solo sul palco, con tutto quello che comporta. Nel bene e nel male.
È un equilibrio complesso da trovare, che vive di momenti, in cui passato, presente e futuro convivono sempre.
Viaggiare tanto, per esempio, è bello.
Ed è una delle cose che mi è mancata di più quando sono stato infortunato o durante il lockdown.
Ma allo stesso tempo, più distante sono da casa e più vorrei essere vicino alla Scozia, dove sento di avere radici profonde, e dove cerco di tornare ogni volta che è possibile farlo.
Quando lo facciamo, Io e Kim, alloggiamo in un hotel storico, poco distante da Dunblane, la mia città: una magione enorme, circondata da acri di terra, dove ci piace passeggiare e perderci nella natura, per goderne il senso di calma.
Al Cromlix abbiamo persino fatto il ricevimento di nozze, e non è un caso che oggi abbiamo deciso di investirci e di farlo diventare un pezzo del nostro futuro. È un pezzo di Scozia, e di conseguenza, un pezzo di me.
Dopo tanti anni di tornei, di viaggi, di successi e di cadute, mi ritrovo ancora ad essere la persona di sempre, la cui vita gravita felicemente intorno al tennis e alla famiglia.
As simple as that.
Perché anche se tutto intorno diventa più grande e più complesso, non puoi certo farti prendere dallo sconforto per una sconfitta, quando in casa hai bambini che ti corrono incontro felici, ansiosi di giocare.
Mette tutto in prospettiva, e quasi chiude un cerchio con quel ragazzino che sfidava il fratello più grande, sperando magari un giorno di riuscire a batterlo.