Fratelli d’Italia.
L’azzurro è come una sorella, a cui vorrai per sempre bene.
È lì, e non lo puoi spostare.
Nè dal calendario, né dai pensieri, perché niente ti chiede e niente ti da quanto lui.
Non è un rapporto facile, quello no, perché vive di alti e bassi, vive di momenti.
A volte vive di panchina e a volte vive di campo.
A volte di fatiche e a volte di gioie.
A volte di vittorie, ed altre invece no.
È un amore enorme: più profondo di una cottarella, ben più articolato di un primo appuntamento, dove tutto scintilla e c’è nell’aria quel senso di magia, quella sensazione di aver scoperto qualcosa di segreto agli altri.
Leggendo alcuni articoli, scritti dagli altri atleti, mi sono chiesta quale fosse il mio primo ricordo. Mi sono chiesta cosa risponderei a questa precisa domanda.
E immediatamente sono tornata col pensiero alle estati passate sul Lago di Garda, che erano la cosa più bella del Mondo, per me, e ai pomeriggi passati con gli amici a giocare.
Poi, il ricordo ha iniziato lentamente a sbiadire, quasi a sgretolarsi, di fronte al passare del tempo.
Tutti sono andati avanti con la loro vita, mentre invece a me sembra di viverne una in affitto, che non mi appartiene davvero.
Come se quello che c’era sotto fosse stato un po’ rubato dal volley, un giorno alla volta.
Quando capita di incontrarsi di nuovo, per una cena, e ascolto i loro racconti delle esperienze condivise, dei viaggi fatti insieme, dei weekend in giro, io quasi mi incazzo, perché avrei tanto voluto esserne parte.
Vorrei avere le loro stesse memorie.
Mi chiedo cosa avrei in più e cosa avrei in meno, se facessi un lavoro diverso.
E lo so che non sarebbe uguale!
Lo so che non funziona esattamente così, che il volley è parte della mia identità, che forse quella versione di me sarebbe triste per non aver dato ascolto ai propri sogni o che magari la vita ci avrebbe portato comunque in luoghi distanti.
Ma il pensiero mi rinfranca lo stesso, mi fa sentire bene.
E lo fa proprio perché è una fantasia, proprio perché non è reale.
Ha un non-so-che di liberatorio, potermi rifugiare in quella linea temporale che non esiste, mi aiuta a scendere a patti con ciò che del mio mestiere è più difficile.
Non è facile mediare tra la donna e l’atleta che sono.
Chi mi conosce bene dice che non le scindo mai, neppure quando invece dovrei.
Togliere la ragazza dalla pallavolista e viceversa, almeno per un po’.
Almeno nei momenti più importanti.
Ma è difficile capire dove inizia l’una e dove finisce l’altra, visto che da quando sono bambina convivono nello spazio, e che per tanto tempo hanno voluto le stesse cose.
Alle superiori non mi importava di nulla che non fosse la pallavolo.
Neppure degli amici, e non in senso cattivo, tutt’altro.
È che quello era il mio sogno, il mio grande progetto.
Più crescevo e più volevo spaccare tutto.
E per farlo passavo sopra le difficoltà, come un rullo compressore, ignorandole, dimostrando a me stessa di essere più dura.
Nascondendo in fondo all’animo le cose che mi facevano stare male.
Come un professore che mi dava dell’ignorante perché volevo diventare qualcuno nello sport, o come qualche compagno che mi ha fatto sentire diversa.
Poi migliori.
Ti fai più grande e più forte.
E poco alla volta passi dall’avere il terrore di disturbare le tue veterane, all’essere tu la veterana che le altre guardano con un po’ di riverenza.
Poi, c’è anche da dire, che oggi le giovanissime sembrano più intraprendenti, o forse più sfacciate, di quanto lo eravamo noi. Forse, è un bene. Non lo so.
Ma tutto cambia, e lo fa molto più velocemente di quanto ti avevano raccontato da piccola.
Come una bilancia, quella della Giustizia, dove su ogni piattello metti un pezzetto di te, e più passa il tempo e più è difficile calcolarne il peso perfetto.
Perché tu, anche per te stessa, diventi un mistero.
Non puoi più pesare le cose ad occhio, quando diventi grande.
Da un lato metti i risultati.
La comprensione del gioco, l’alto livello raggiunto.
Ho scoperto che non sono soltanto un’attaccante da muro, e che posso fare tante cose diverse, quando sono in campo.
Ho imparato a non uscire dalla partita dopo un errore.
A restare dentro, sempre.
Che tanto qualcosa di utile lo posso comunque fare.
E questo vuol dire crescere.
Dall’altro invece, come tutti gli adulti, hai la scoperta del mondo esterno, con le sue dinamiche.
Scopri che anche dopo una stagione vincente, ad attenderti c’è soltanto un’altra stagione, in cui dovrai ripartire da capo.
Scopri che le vite degli altri continuano, che la tua fama arriva per forza prima di te quando conosci qualcuno, che per una larga parte di chi ti circonda sarai sempre e comunque Danesi.
Che di conoscere Anna non interessa a tanti.
Ed è proprio lì, sull’equilibrio di quella bilancia che metto il mio azzurro.
Perché a lui ho dedicato ognuna delle ultime dodici estati, 2023 compreso, lontano da casa e lontano dagli amici.
Perché è la massima espressione di quanto io sia capace di fare in campo, ma anche di sognare fuori. In termini di attaccamento, di appartenenza, del piacere di trasmettere alle bambine cosa significhi per me la pallavolo.
Perché è faticoso, e ti obbliga a investire quello sempre tutto quello che hai.
Non solo fisicamente, ma anche quello che hai nel cuore, lasciando fuori l’orgoglio.
A volte farlo non basta comunque.
A volte invece sì, e in quegli istanti tutto ritorna.
Per un breve istante tutto ritorna, e dipende soltanto da te quanto riuscirai a tenerlo dentro, prima che si dissolva nel vento, proprio come tutto il resto.
L’azzurro sì, che è davvero in affitto, ma in fondo è così che mi sento da tanto tempo anche io. E tra sorelle, si sa, ci si capisce al volo.