Se una cosa la conosci davvero.
Fino in fondo.
Fin nel più piccolo particolare.
La sua storia, il suo viaggio, le sue mutazioni.
Allora non può non piacerti.
C’è così tanto, dentro il percorso di chi è venuto prima di te.
Così tanto nella fatica per emergere, per dare legittimità ad un sogno.
Per dare corpo ad una cultura.
E trasmetterla poi anche all’esterno.
Così tanto negli errori, nelle cadute, negli inciampi.
Così tanto nelle invenzioni, nelle battaglie, e nei successi.
Ogni cosa è un romanzo.
E allora sport o cultura?
Oppure sport e cultura?
La breakdance è un universo parallelo, dove passato e presente esistono nello stesso istante, dove un passo nasce e poi sparisce, si evolve e poi ritorna, con tutta la sua storia, con il peso di tutti i suoi cambiamenti.
Quelli cercati e quelli incontrati per caso.
Quelli facili e quelli difficili.
Quelli vicini e quelli lontani.
Non basta essere un atleta, forse non serve neppure definirsi davvero così.
Perché la break è uno stile di vita, un’idea che diventa materia.
Un gruppo di persone che si capisce senza parlare.
Un pezzo di anima che trova il proprio posto nel Mondo, e soltanto allora inizia a interagire con gli altri.
A prendere quel che impara e metterci il proprio.
A disegnare una traiettoria nuova.
Da solo, eppure sempre nel bel mezzo di un abbraccio.
© Alberto Feltrin
E dire che ci sono arrivata abbastanza tardi, alla break.
E pure un po’ per caso, ad essere del tutto sincera.
Ero alle scuole medie, ed era morto Michael Jackson.
Non sapevo neppure chi fosse, o quale fosse stato il suo impatto sulla storia dello show business. A quell’età è impossibile mettere davvero in prospettiva il valore di una carriera del genere. Ti innamori di cose più piccole.
Molto più piccole.
Ma non per questo meno intense.
Però i miei genitori erano così profondamente tristi della sua morte, da lasciarmi confusa.
Poi ho sentito la sua musica.
E lamusica la capivo.
Quella sì che la capivo.
Mi si è aperto qualcosa dentro.
Il ritmo. Quel senso del ritmo.
E poi quei suoni, quei balletti.
Le coreografie.
In breve tempo sono diventata la sua fan numero uno.
Leggevo i libri, ascoltavo gli album a ripetizione, appendevo i poster in ogni angolo di muro rimasto libero nella mia cameretta.
Replicavo i suoi spettacoli, insieme a mia sorella.
Mi sognavo di essere su un palco, come lui.
Così intensamente che, ad un certo punto, sognare non è bastato più.
Sono cresciuta in una famiglia numerosa, e sono la sorella di mezzo.
Terza di cinque, più piccola delle due sorelle maggiori e più grande dei due fratelli minori. Quella di raccordo, quella a metà, quella troppo giovane per metà delle cose e troppo adulta per l’altra metà.
Me ne stavo molto sulle mie, in principio.
Silenziosa e solitaria.
Persa nei miei pensieri.
© Alberto Feltrin
Facevo sport, certo, perché bisognava fare sport.
E la mia disciplina era la ginnastica artistica.
E quella era.
Senza se e senza ma.
Lo è stata dai 6 ai 13 anni, senza soluzione di continuità.
Senza che la amassi mai davvero.
Senza che smettessi mai di sentire, in fondo allo stomaco, che qualcosa di quell’ambiente mi andava stretto.
Una sera, quando avevo già tutti i poster del Re del Pop intorno al letto, sono andata ad una serata danzante, organizzata dal mio papà. Siamo una famiglia di albergatori, e spesso lui si metteva a fare il dj per allietare gli ospiti.
Mette la canzone, salta fuori da dietro la consolle e si mette a ballare.
Era la prima volta che lo vedevo muoversi così.
La prima volta che osservavo quei passi.
Era fluido, elegante, potente.
Era più bravo di me.
© Alberto Feltrin
E io, da quel momento, decisi che volevo di più.
Più dei balletti in camera con mia sorella.
Più dell’imitazione delle coreografie di Michael.
Presi dei volantini di un corso di break e li porsi a mia madre.
“Qui. Voglio andare qui.”
Ad andarci da sola, un po’ mi vergognavo, e allora costrinsi una delle mie sorelle a venire con me. La prima lezione l’abbiamo fatta insieme, come poi tutte le altre.
Abbiamo capito subito il potenziale che c’era e non abbiamo mai fatto parte di una vera e propria scuola, ma lavorato sempre da casa, con un maestro privato.
Lo stesso maestro che ci ha visto il primo giorno e che oggi mi accompagna verso i Giochi Olimpici.
Non mi sono più voltata indietro.
E ho cominciato una profonda relazione con la break.
Io prendevo confidenza con le sue regole e i suoi spazi.
Mentre lei entrava pian piano dentro di me, annaffiandomi con la sua cultura, con il suo racconto. Con il suo senso di comunità.
La break dance è diventata la mia casa, il luogo dove ho vinto la mia timidezza, e dove l’anima respira libera.
Un luogo dove creazione e competizione possono stare nella stessa frase.
Come sfida e amicizia.
Come arte e sport.
E ora che siamo davanti ad un pezzo importante del nostro futuro, sarebbe bene non dimenticare mai le lezioni del nostro passato.