Al pascolo, l’erba si taglia tre volte in un anno.
La prima quando l’estate è alle porte.
L’ultima quando ormai è finita.
All’inizio, la si lascia sempre sul prato, sotto i raggi del sole, affinché l’estate faccia la sua magia, si secchi e diventi fieno, buono per l’inverno.
Se il cielo minaccia pioggia allora si deve correre per accumularla tutta in un punto e coprirla con un telo. Ma appena sparisce la nuvola, sparisce anche il telo, si prende il rastrello e la allarga di nuovo per tutta l’ampiezza del prato.
Piove quattro volte e tu la sposti cinque.
Piove dieci e tu la sposti undici.
© VOG_Rier
Le mie estati le avevo sempre passate su al maso, per aiutare mio padre.
Tutte quante.
Lui faceva il contadino, e dagli animali e dalla loro cura, ho imparato che non a tutto c’è un rimedio. Certe cose non basta volerle, bisogna anche saper aspettare.
In natura non esistono domeniche e non esistono festività.
Non esistono il giorno di riposo e le vacanze di Natale.
Esistono solo il tempo e lo spazio, dei quali ognuno ha un’esperienza tutta sua.
La prima volta in cui d’estate mi sono potuto allontanare dal maso e dai miei doveri di bravo figlio, avevo quattordici anni, ed ero appena stato convocato per un raduno al mare.
Non lo avevo mai visto prima.
È grande, e sembra un oceano.
Anche le montagne sono grandi, ma se sei a fondo valle, stanno tutte dentro ad uno sguardo solo, che insieme alle rocce, ai ruscelli e alla neve, contiene anche la loro storia. La montagna non ti appartiene, ma la puoi comunque sentire tua.
Il mare invece no, e di quella grandezza ricordo anche la più piccola sensazione.
© Pentaphoto
Pochi mesi prima avevo deciso di passare dallo slittino naturale a quello artificiale, perché uno dei due era una disciplina olimpica, mentre l’altro invece no.
Me lo aveva spiegato per bene, il mio allenatore, e se penso a quanto è successo poi negli anni a venire, sono contento che lo abbia fatto.
Io, da solo, non lo avrei mai scoperto.
Forse neppure mi interessava saperlo.
Perché la sola cosa che mi rendesse felice, nello sport, era la sensazione di libertà che provavo durante una discesa. Nulla di più e nulla di meno.
Tutti credevano che avessi talento, e quando comparavano le mie prove con quelle dei ragazzi più grandi di me, il cronometro diceva sempre che ero il migliore di tutti.
Andare avanti, però, non era un obbligo.
Non lo era per me e non lo era per il mio allenatore, che avrebbe potuto fare come fanno in tanti, tenendomi stretto nel club locale per vincere tante gare e sentirsi più bravo degli altri. Vittorie che non valgono nulla per davvero, e che danno da mangiare soltanto alle proprie convinzioni.
Capita la differenza tra una disciplina e l’altra, l’ho spiegata anche ai miei genitori, che mi sono stati di mente aperta e mi hanno fatto sentire la persona giusta al posto giusto: “Armin, vai e prova. Potrai sempre tornare a casa, e, se vorrai, fare quello che fa il papà.” Come tagliare la legna e falciare l’erba del prato, aspettare che il sole le asciughi entrambe e metterle vie per quando arriva il freddo.
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Il freddo, prima o poi, in montagna arriva.
E quando arriva devi fare di necessità virtù, perché non a tutto c’è un rimedio.
D’inverno, la strada che dal maso portava fino al paese si congelava del tutto, e alle prime ore del giorno lo spazzaneve non era ancora passato. Allora, per andare a scuola, non potevo fare altro che mettermi sullo slittino e scendere i quattro chilometri che mi separavano dal fondo valle.
Mi trovavo con gli altri bambini, con gli amici e con i cugini, e ci buttavamo giù, tutti insieme, il più veloce possibile.
È sempre stato semplice per me capire la slitta.
Come un essere vivente: reagisce al terreno, vibra e si fa sentire nelle ossa.
E le ossa ti raccontano la storia della tua discesa.
Quindi ho imparato ad andare sulla slitta un po’ per necessità e un po’ per divertimento.
Poi, mi hanno insegnato la differenza tra una slitta e l’altra.
Dopo ancora, mi hanno portato a vedere il mare.
E infine sono diventato grande.
Quando sono diventato grande mi sono accorto che, con la giusta dose di fortuna, avrei potuto persino arrivare alle Olimpiadi, e provare a fare quello che stavano facendo i miei compagni a Albertville 1992, dove vinsero addirittura un bronzo.
Non che pensassi ad una medaglia, quello no.
Era troppo lontana, sia nel tempo che nello spazio.
Ma cominciai almeno a convincermi che forse, con i giusti accorgimenti, anche io sarei potuto arrivare ai Giochi.
Cambiai i materiali, cambiai la slitta, iniziai ad allenarmi più duramente che mai, e ogni volta che incrociavo i più forti al mondo provavo a rubar loro qualche segreto, nella speranza di migliorare a sufficienza da avere la mia occasione e partecipare ad una edizione.
Ci sono riuscito subito, a Lillehammer, quando di anni ne avevo soltanto venti, e dopo la qualificazione ero talmente felice e libero di testa che riuscii anche a viverla come un gioco. Arrivai in Norvegia e tutto fu perfetto.
La gente era cordiale, la pista bellissima e la gara andò liscia dall’inizio alla fine.
Finii terzo, ed ero così stupito che della medaglia, quasi, non sapevo che farmene perché non ero preparato a vincerla.
Restano i Giochi più belli, quelli più freschi, come un vento d’estate che asciuga l’aria e che spazza le nuvole.
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Da allora, il mio cielo non sempre è stato sereno, ma nessun raccolto è mai andato perduto. Dopo l’argento di Nagano e l’oro di Salt Lake City, la mia vita è cambiata e con lei anche le aspettative che tutti avevano nei miei confronti. I giornalisti italiani e quelli internazionali hanno cominciato a interessarsi di me e dello slittino anche aldilà delle Olimpiadi, raccontando con la stessa attenzione i trionfi e le sconfitte.
Prima dei Giochi di Torino tutti scrissero che la mia era la medaglia più sicura di tutte, e che qualunque cosa meno dell’oro sarebbe stata una delusione.
Era vero.
Ma non lo avevo chiesto io.
Peso + pendenza = velocità.
Più pesava l’opinione della gente sulle mie spalle e più forte andavo.
Più forte andavo e più ero felice di passare il traguardo.
Il tempo passa e dello spazio, i nostri nipoti, saranno i prossimi coloni.
Ma per alcune cose continua a non esserci rimedio.
All’infuori della pazienza.
Perché al pascolo, l’erba si taglia tre volte in un anno, la prima quando l’estate è alle porte e l’ultima quando ormai è finita, ma a scegliere il momento per farlo è sempre e solo il contadino, che lo fa guardando il cielo e la luna, e ascoltando con attenzione cos’hanno da dire le sue ossa stanche.