Il C50 è un autobus di linea.
Unisce Como a Cantù.
Le due città saranno divise da poco meno di quindici chilometri, qualcosa del genere, ma se lo devi prendere all’ora di punta, magari nel primo pomeriggio, il viaggio ti porta via sempre 40 minuti.
Come minimo.
40 minuti come una partita di basket.
A volte, se perdevo il C50, mi toccava in alternativa salire sul C51 o sul C52, che invece che fare linea retta attraversano tutti i paesini e quella sì che era una gran bella perdita di tempo.
Ho preso lo stesso autobus tutti i pomeriggi, per tanti anni della mia vita, proprio come fanno ogni giorno centinaia di persone per andare al lavoro.
Di anni io, quando ho iniziato a fare il pendolare per allenarmi, ne avevo pochi: non più di dodici o tredici. Ma quello era il solo modo per potermi presentare al Pianella di Cantù a fare quello che mi piaceva più di tutto.
Mio papà lavorava in un’azienda: lo vedevo per dieci minuti al mattino, mentre facevamo colazione, e poi direttamente alle dieci di sera, quando entrambi tornavamo a casa stanchi, con tante cose successe da raccontare e nessuna energia rimasta per poterle raccontare tutte davvero. Alla fine era sufficiente una parola per capirsi, un gesto gentile che racchiudesse insieme tutte e due le nostre giornate passate in luoghi distanti.
Anche la mamma lavorava sodo.
L’Italia è un Paese difficile e per arrivare lontano, in qualunque settore, devi fare qualcosa di grande sul serio. Per emergere qui serve semplicemente tutto: fatica, talento, fortuna.
Per cui quando lei ha capito che io nel basket avrei potuto raggiungere dei traguardi importanti, ha iniziato a riempire le sue settimane di tanti lavori. Grandi e piccoli, che mi aiutassero a coltivare il mio unico sogno.
È in quegli anni lì che il rapporto con loro e con mio fratello più piccolo è diventato così profondo, così completo. Lo dicono tutti riguardo ai propri genitori, e forse è vero, per davvero, per tutti, ma quello che loro hanno fatto per me, e per mio fratello, resta unico.
Non smetterò mai di riconoscerglielo e non smetterò mai di chiedere il loro consiglio davanti alle scelte più difficili.
Il mondo dello sport è territorio di professionisti.
Per ogni aspetto della vita di un atleta c’è un esperto pagato per guidarti, per consigliarti.
L’alimentazione, la scelta del materiale tecnico, quali interviste rilasciare.
In quale squadra andare a giocare.
Ad ognuno di questi tavoli i miei genitori avranno sempre un posto e voce in capitolo perché spesso serve l’occhio di chi ti vuole bene, di chi non è professionista di niente a parte prendersi cura di te, per darti il consiglio giusto.
Dunque ho preso l’autobus per molti anni per andare ad allenarmi e l’ho fatto fino a che non ho potuto comprare la macchina. Cosa che è avvenuta al mio secondo anno di Serie A. Fino al mio primo anno nella massima serie, fatto con coach Trinchieri in panchina, ho continuato a venire al palazzo così.
Il capolinea, ai tempi, era nella piazza centrale, ora non saprei dire se si trova ancora lì, e per raggiungere il Pianella serviva camminare più di qualche chilometro. Certo a volte chiedevo a qualche compagno di venire a recuperarmi in macchina, soprattutto quando avevo poco tempo per far combaciare tutti gli orari.
Ma nella maggior parte dei casi andavo a piedi, prendendo una stradina secondaria.
Una viuzza piccola e poco trafficata, parallela allo stradone che porta su fino a Cucciago.
Prendevo quella non perché fosse più corta ma perché non volevo farmi vedere dai miei compagni che passavano in auto sul percorso principale.
Chiedere un passaggio mi dava fastidio, io volevo farcela da me, lontano dagli occhi degli altri.
Alle partite, oppure alle partenze per le trasferte, spesso mi accompagnava mio padre perché nel weekend riusciva ad essere un po’ più libero.
Mi dava una sensazione strana scendere dal furgone da lavoro nel parcheggio sul retro del palazzetto, perché lì c’erano le auto degli altri parcheggiate, e spesso il parco macchine di una squadra di serie A mette in mostra tanti cavalli e carrozzerie scintillanti.
Avevo paura di essere giudicato dagli altri.
I giovani si guardano e commentano tutto, soprattutto quelle cose della vita di cui in realtà non sanno assolutamente niente.
Io sentivo la stessa timidezza, nel parcheggio come nella stradina secondaria, qualcosa di difficile da spiegare, ma legato senza dubbio alla maniera in cui quando sei adolescente pensi al valore del denaro.
Nello sport esiste uno strano fenomeno per il quale ad un giocatore più forte e più pagato dei suoi compagni si attribuiscono in automatico anche qualità umane più marcate, più preziose. Come se essere bravo in campo significasse di riflesso essere saggio fuori.
Solo che non è la verità.
Ho imparato tanto sul come ci si comporta in una squadra sia dai giocatori forti che da quelli meno conosciuti, ma anche da allenatori, da tifosi e da magazzinieri.
Con il senno di poi mi viene da sorridere nel ripensare ai miei pensieri di allora.
Non avevo mai avuto un piano B dentro la testa: volevo diventare un giocatore di serie A. E basta. Nessuna alternativa.
Anche per questo il Pianella è diventato presto la mia seconda casa e lo è rimasto per tutta la mia permanenza a Cantù, non soltanto negli anni delle giovanili.
Chiunque sia mai passato dal palazzetto conosce Mino, il custode storico.
O forse lo storico custode.
Nessuno capisce mai le parole che sta dicendo eppure tutti gli ubbidiscono lo stesso. Non c’è stato un solo americano di passaggio che non si sia fatto derubare da lui in una gara di tiro, che Mino realizza con percentuali sbalorditive con quella che è, a tutti gli effetti, una rimessa laterale da calciatore.
Le chiavi del palazzo sono sue, letteralmente sue, e soltanto negli ultimi anni trascorsi lì sono riuscito ad ottenerne una copia tutta per me.
Ci passavo dentro decine di ore oltre a quelle previste dall’agenda della squadra.
Il lunedì, che è il giorno libero per antonomasia del giocatore, facevo due ore di pesi e due ore di tiro, a cavallo di pranzo, da solo in un Pianella deserto che odorava di ferro e storia.
“Sei ancora qui?” Mino, al ritorno della sua pausa pranzo.
Spesso tornavo sul parquet anche il venerdì sera tardi, per tirare.
Per me era uno sfogo importante: mi alleggeriva della tensione pre-partita. Incrociavo i ragazzi della serie D, che prenotavano il campo dopo cena, e mi prendevo un angoletto per lavorare in solitudine.
Poi sopra il tuo carattere, sopra le fondamenta della tua persona ti costruisci una carriera, e quella è fatta di scelte, giuste o sbagliate, di sfide, vinte o perse, e di progressioni, veloci o lente.
Il lavoro mi è servito come ancora di salvataggio nei momenti in cui facevo fatica a giocare bene. Credo di aver avuto più pazienza del normale, di sicuro ne ho avuta più del previsto, nell’attendere la mia occasione.
Tutto è iniziato con l’oro all’Europeo under 20, con Sacripanti allenatore.
Quel successo è stato il punto di svolta della mia carriera e anche il primo ammiccamento con uno dei miei grandi amori: la maglia azzurra.
Nonostante le buone occasioni di minutaggio offerte da quella medaglia, all’inizio facevo comunque molta fatica a impormi, a ritagliarmi uno spazio importante.
Più di ogni altra cosa facevo fatica a capire in che ruolo avrei potuto giocare, quali sarebbero state, tra le mie qualità, quelle più adatte a farmi diventare qualcuno.
Questa è una grande differenza: riuscire a stare in campo è una cosa, ma diventare qualcuno è completamente un’altra.
È una differenza che va capita presto altrimenti si finisce col perdersi per strada.
Quando hai raggiunto un livello fisico e tecnico non troppo distante da quello dei tuoi compagni, in campo ci puoi stare.
Fai il tuo, difendi e cerchi di non farti spazzare via a rimbalzo, tiri sugli scarichi e provi a non far danni in attacco. 3, 4 o cinque minuti in serie A li possono giocare in molti.
Ma arriva molto presto un giorno nel quale del tuo riuscire a stare in campo lo staff tecnico non se ne fa più un bel niente e serve sviluppare in fretta delle qualità tali da diventare un’alternativa più che valida.
Tirare meglio dei compagni.
Oppure difendere meglio.
O essere più bravo di loro nelle letture tattiche.
Devi sviluppare una qualità che faccia dire a chi ti allena: lui mi serve a fare questo.
Io ho sempre fatto tutto quello che potevo per non smettere di aggiungere cose al mio bagaglio tecnico e ancora oggi mi sforzo di migliorare altri aspetti del mio gioco. Ai miei esordi non è che fossi poi molto efficace a giocare il pick and roll palla in mano.
E questo è solo un esempio.
Poi, all’improvviso, durante l’anno di Corbani ho iniziato a convincermi che potevo. Che anch’io potevo diventare qualcuno.
Che le mie qualità erano tali da permettermi di essere un giocatore importante.
E quasi dal nulla mi sono ritrovato a fare in serie A le stesse cose che facevo nelle giovanili. Di punto in bianco tutto il lavoro ha trovato il proprio posto ed io ero capitano della squadra del mio cuore. A casa mia.
Andarmene non è stato certamente facile, ma lo sentivo come necessario.
Improrogabile.
Quella scelta ha ferito molti tifosi, gente che mi aveva letteralmente visto crescere, e per questo non li biasimo affatto. Restava però un passaggio obbligato, l’occasione di andare avanti ad esplorare altre cose e dovevo approfittarne.
L’ultima partita fu un Cantù – Varese, ironia della sorta un derby, uno delle centinaia giocati con la maglia bianco e blu indosso.
Dopo la partita sono andato a prendere mia moglie e sono scoppiato a piangere.
10 anni passati tra quelle lamiere polverose e fredde, che erano comunque il campo più caldo d’Italia.
Mi sentivo come quando saluti un parente sapendo che non lo rivedrai più.
L’anno di Milano credo sia stato produttivo per me.
Mi ha permesso di salire di livello e di confrontarmi con l’Eurolega, qualche volta in quintetto e accumulando minuti pesanti sul curriculum. Ogni settimana giocavamo su grandi palcoscenici e se fai bene su certi campi il tuo status cambia radicalmente.
Non tutto forse è andato come preventivato in partenza, ma lo sviluppo tecnico, fisico e mentale di un giocatore è sempre il frutto dell’accumularsi di molti strati, nessuno possiede la formula magica.
È un processo.
Ed essendo un processo alla fine puoi uscirne colpevole oppure innocente.
Non dipendi soltanto da te: ci sono giuria, giudice e testimoni.
Milano mi ha anche definitivamente aperto le porte della Nazionale maggiore che è sempre stato un grande sogno per me. Sono cresciuto nel mito di Basile e di Pozzecco: la squadra di Atene 2004 è stata il mio primo grande amore.
Gli anni con Messina in panchina sono stati formativi ma comunque difficili.
Avevo grandi giocatori davanti nelle rotazioni e forse non ero ancora pronto per giocarmi al meglio tutte le mie carte.
Di sicuro non avevo la consapevolezza che ho adesso quando scendo in campo.
L’arrivo di Sacchetti e la novità delle finestre durante il campionato sono state due buone novità per me, perché mi hanno permesso di accelerare la mia crescita, giocando fin da subito minuti importanti.
Ora abbiamo la grande occasione, dopo 13 anni, di riportare l’Italia ad un Mondiale e far parte di una serata potenzialmente storica è un’emozione forte. Di cosa vorrebbe dire giocare un Mondiale non riesco neppure a parlare: è un pensiero troppo grande e ancora distante.
Mentre invece non è distante il ricordo di tutto quello che mi ha permesso di arrivare fino a qui.
La mia famiglia.
La fatica.
E un autobus di linea.