Io ho una testa molto delicata.
In tutti i sensi possibili.
Sono delicati i miei pensieri, è delicata la mia felicità, ed è delicata anche la chioma di capelli che protegge tutto quello che sta dentro.
Farmeli acconciare, sistemare, persino farmeli toccare è un gesto intimo.
Un gesto privato.
È come un abbraccio, ma più tecnico.
Non ammette distrazioni.
È come una stretta di mano, ma più calda.
Un gesto di fede.
Solo la mamma poteva mettere le mani in mezzo ai miei capelli senza farmi sobbalzare, e di recente, per fortuna, ha ricominciato a farlo, come quando ero bambina.
Sussurra, la mia mamma, mentre infila le dita tra un ricciolo e l’altro.
Sussurra e canta lodi al Signore.
Inni di pace e preghiere a Dio.
Che protegga me e che protegga tutti noi: perché la strada è lunga, buia e piena di ostacoli.
La signora Folorunso il giorno del suo arrivo in Italia
A volte penso che la vera storia da raccontare sia proprio la sua, quella della mamma, che nel mettere in fila le cose che ha fatto mi vengono i brividi e mi viene da chiedere come potrei mai confrontarmi con lei e con i suoi traguardi.
Ultimogenita di una famiglia numerosa, nel settembre del 2001, dopo la laurea e dopo il matrimonio, ha deciso di cercar fortuna in Italia, come aveva fatto sua sorella, zia Mary Amira, qualche anno prima di lei.
Mamma non voleva restare con le mani in mano.
Voleva cercare qualcosa di meglio, qualcosa per cui valesse la pena viaggiare, e rimettere in gioco la propria vita e quella degli altri.
Lo voleva per sé e lo voleva per noi, visto che io, mio padre e la mia sorellina restammo in Nigeria, in attesa di buone notizie della nostra eroina.
Fidenza.
Di tutti i comuni che ci sono in Italia, che sono pieni di storia e di cultura, di lavoro e di industrie, mamma scelse Fidenza. Fidenza che è un posto magnifico, per carità. Fidenza che è diventata la nostra casa e in cui siamo felici.
Ma pur sempre Fidenza.
La piccola, provinciale, tranquillissima Fidenza.
Credo che il destino abbia voluto lasciare qui una prima impronta sul nostro cammino, spingendo la mamma a scegliere una cittadina piccola, sconosciuta all’estero, ma dalla grande tradizione sportiva.
Cosa sarebbe successo se fosse andata da un’altra parte, in un posto dove lo sport non è così tanto importante?
Cosa sarebbe successo invece se fosse andata in una grande città, con le incognite del mondo intero a spasso tra i quartieri e il traffico infame sulle strade, che ti impedisce di andare al campo di allenamento a piedi oppure in bici?
C’era qualcosa di profetico in quella scelta, qualcosa di fatalista.
Qualcosa che aveva il compito segreto di intrecciare i fili delle nostre vite, unendole dall’alto in una treccia lunga e ben curata.
La laurea della mamma, ovviamente, in Italia non venne riconosciuta, e una stimata tecnologa alimentare da un lato della Pianeta, dovette reinventarsi da capo, partendo da zero, appena arrivata all’estremo opposto.
Quando penso a quanta energia richieda studiare e a quanto resto aggrappata con le unghie e con i denti a quello che conquisto, ancora non riesco a capire dove abbia trovato le forze di accettarlo.
Ma lei era intraprendente, forte, guidata da un senso di direzione e da una volontà che sapevano sempre cosa fosse giusto fare. Piangeva, pensando a noi lontani e alla nostra infanzia vissuta senza di lei.
Ma non arretrava mai.
Non dubitava mai.
Arrivando da un ex colonia britannica, come la Nigeria, nell’Italia di 20 anni fa, dove nessuno o quasi parlava l’inglese, la lingua era un’enorme barriera, ma lei imparò a farsi capire nel giro di pochissimi giorni, e in soli 3 anni costruì un presente di tutto rispetto.
Nel giro di qualche settimana già lavorava, poi prese la patente, ed infine ottenne i documenti per il ricongiungimento familiare, il tutto in tempo record: un piccolo sogno che, di solito, richiede più o meno un decennio di fatiche per diventare realtà.
Quando io e mia sorella siamo giunti a Fidenza, ad aspettarci c’era già la situazione ideale: c’era già una scuola, c’era già una casa e c’era già un campanello con scritto “sotto gli occhi di Dio”, il significato del cognome che portiamo.
Ha fatto qualsiasi lavoro, con una dedizione e un sacrificio che mi commuovo ancora oggi, e quando poi, tanti anni dopo aver sistemato la famiglia e il futuro di ognuno dei suoi componenti, è arrivata a metà della sua vita si è rimessa sui banchi di scuola.
Si è iscritta all’Università, si è laureata in Scienze e tecnologie alimentari e, da zero, ha aperto un’attività di consulenza tutta sua.
Di nuovo.
Da sola.
Per quanto brutto possa essere il cielo, se il contadino guarda le nuvole invece che seminare, alla fine non avrà alcun raccolto.
Crescendo, vedevo solo la “mamma”, nella sua storia.
Vedevo solo gli spigoli, la durezza.
Vedevo le cose che la rendevano diversa dalle altre mamme, sempre insoddisfatta di noi, sempre pronta a fare una critica, a chiederci di più, e meglio.
Oggi la guardo con occhi diversi, e ritrovo in lei tutto ciò che rende grande l’uomo, con il suo spirito di adattamento, con la sua fede incrollabile nella via del Signore e con la capacità di guardare oltre al dolore terreno.
Oltre i soldi.
Oltre la solitudine.
Quando cominciai a fare sport non si può certo dire che fosse la mia prima tifosa. Anzi.
Lei immaginava per me una carriera accademica di primo livello, e avrebbe voluto vedermi piegata sui libri piuttosto che libera a scorrazzare per il campo come un piccolo cerbiatto indisciplinato, con le gambe secche e un po’ stortine.
Non veniva mai a vedere le mie gare.
Prima perché doveva sempre lavorare.
Poi, quando ha capito che l’atletica mi piaceva davvero, per mandarmi un segnale.
Per farmi capire che non era d’accordo.
Ma io, che sono decisa quanto lei, ho proseguito dritta per la mia strada, fino al giorno in cui non sono riuscita a farle capire quanto fosse importante per me.
E da quel momento in avanti, da quando ho avuto la benedizione di famiglia, il sostegno che ne ho ricevuto non è stato più soltanto fisico e materiale, ma anche spirituale, emotivo.
© Ilaria Fedeli
Noi preghiamo sempre.
Prima di ogni gara, di ogni viaggio.
Prima di ogni cosa.
Preghiamo insieme, guidati dalla voce di papà, che è sempre stato un pastore.
Sarà anche un geologo in pensione, ma dentro di lui, prima di ogni altra cosa, risuona la voce di un pastore.
E più io giravo il mondo grazie allo sport e più mi sentivo vicina agli insegnamenti di casa. La conoscenza di Dio, la fede nella sua volontà, la convinzione nel percorso che è stato disegnato per me: le cose che imparavo, alla fine, non facevano altro che riportarmi alle certezze di sempre.
Questa volta, però, riempite anche di qualcosa di mio.
Le preghiere non sono più state un mero rituale, ma dialoghi con Dio, dentro ai quali potevo finalmente offrire anche le mie ragioni, le mie esperienze.
Non credo sia un caso che il mio talento si esprima al meglio nei 400 metri ostacoli, una delle discipline più dure dell’atletica. Credo che sia un test.
Credo che sia una pacca sulla spalla, il modo che il Signore ha per dire a me, e a me soltanto, che quella che percorro è la strada giusta, la stessa che hanno fatto gli altri prima di me, ognuno a modo proprio.
La stessa strada di mamma.
E come lei sussurra le sue preghiere sotto voce mentre mi aggiusta i capelli, io sussurro le mie, sul blocco di partenza: “ti chiedo di nuovo di darmi la forza per arrivare fino in fondo, come hai già già fatto in passato”
Perché io sono già stata qui.
E perché noi siamo già stati qui.