Animali e benzina.
Erba da tagliare e gomme da gonfiare.
Tergicristalli e formaggio.
Fatica e di nuovo fatica.
Io vengo da una famiglia che non si è mai posta il problema di cosa significasse lavorare, perché la risposta ce l’aveva dentro da tutta un’esistenza.
Per metà impegnata a lavorare la terra e ad accudire il bestiame, e per metà pronta a sgobbare dalla sera alla mattina per tenere in piedi due distributori di carburante, nella nebbia della periferia bergamasca.
Chissà quante ragazze e quanti ragazzi sono cresciuti così, dalle mie parti e non solo, figli di un’Italia costruita sulle idee dei nonni, sulla voglia di indipendenza, nella cruda schiettezza dell’ordinario, che non conosce riposo e che non sempre si può permettere di santificare le feste.
Quantomeno non tutte.
Se c’è una cosa che avevano in comune la vita in fattoria e quella passata sotto al sole, a far la guardia alle pompe di benzina, è che non esistevano orari né cartellini da timbrare.
Non esistevano domeniche e neppure week-end, che gli animali e i clienti hanno sempre ragione, e di certo non aspettano i comodi nostri.
Niente giorni di riposo oppure ferie pagate: solo e soltanto il lavoro, con i suoi ritmi e le sue richieste, con le sue necessità e i suoi inghippi.
Con la sue rotture di scatole e con quella democratica capacità di restituirti esattamente quello che tu hai dato a lui.
Non un centesimo in più, non un centesimo in meno.
Sono cresciuta così, quando il “lavoro” era ancora inteso come il “lavoro delle braccia” e quando i distributori automatici con la loro tecnologia iniziavano appena a prendere piede.
Io sono esattamente come loro.
Come i miei nonni, come la mia famiglia.
Da tutto questo ho ereditato la capacità di soffrire, quasi il piacere di farlo, e ho ereditato anche l’attitudine a guadagnarmi tutto per conto mio, affrontando un po’ di pancia e un po’ di cuore, quello che mi si para davanti.
Chi non ha mai saltato un giorno di scuola, per esempio?
Tutti l’hanno fatto, almeno una volta.
Ti alzi al solito orario, meglio se con un sorriso inappuntabile, fai colazione, prepari la cartella ed esci di casa: ti comporti esattamente come faresti anche in qualsiasi altra mattina, che le apparenze, di fronte al crimine, sono le cose più importanti.
Poi, girato l’angolo di casa o arrivata alla fermata dell’autobus, la bugia scompare, puff, come una nuvola di fumo, e con il gruppetto dei complici più fidati ti ritrovi a bighellonare sul tavolino di qualche bar, o a passeggiare nel centro commerciale più vicino. Profondamente convinti di essere dei geni del male.
Ecco: io non l’ho mai fatto.
Mentire e fare tutta quella recita mi sembrava soltanto una perdita di tempo, e quando avevo voglia di stare a casa da scuola, mi limitavo a dirlo a mia madre, con tutta la schiettezza di cui fossi capace.
“Oggi non vado.”
La mia etica del lavoro, il mio impegno, la mia capacità di stare dentro le regole e di farmi trovare pronta quando era necessario, non sono mai stati messi in discussione, anche se avevo un modo tutto mio di esprimermi e di rapportarmi con gli altri, e questo significava avere il beneficio del dubbio sempre.
“Se lo farà, ci sarà un motivo”
Che fosse un giorno di buca o un aereo preso e in fretta e furia per andare a visitare una qualche città lontana: i sotterfugi non hanno mai fatto per me.
Trasparente, diretta, per qualcuno maschiaccio, per qualcun altro anima libera, colpevole di essere soltanto un po’ fuori dalle righe.
L’esuberanza fisica e l’impronta familiare mi hanno resa bravina in tutti gli sport, anche se io, ad essere onesta, non andavo matta per nessuno in particolare. In casa, come dappertutto in Italia, si masticava tantissimo calcio, specie per via di mio papà e di mio fratello, ma io, quando il momento di scegliere è arrivato, mi sono fatta prendere dal ciclismo, che se ci penso adesso non esiste disciplina più adatta per descrivere chi sono e da dove vengo a chi ancora non sa nulla di me.
Ho iniziato a pedalare a pane e salame.
Letteralmente.
Non lo dico tanto per dire.
Non aspettavo che la domenica per fare la nostra garetta e poi ritrovarci tutte insieme, sfinite e con l’abbronzatura a chiazze che solo chi pedala tanto saprebbe riconoscere, a mangiare le torte salate e i salumi che le varie mamme avevano portato per noi.
Il mio ciclismo era bello.
Semplicemente bello.
Democratico quanto il lavoro.
Semplice come la fattoria o la pompa di benzina.
Chilometro dopo chilometro, alla fine, alle due ruote mi sono affezionata sul serio, e raggiunto il limite per chiamarlo ancora un “gioco”, mi sono ritrovata a dover scegliere che fare di così tanta passione.
Decisione difficile da prendere, perché a 18 anni tutti sembrano, oppure si sentono, campioni di qualcosa, e conoscere i propri limiti è molto più difficile a dirsi che a farsi. La sola certezza che avessi era la stessa di sempre, il lavoro, e nonostante provare a fare del ciclismo una carriera, all’epoca, fosse un azzardo, non me ne curai più di tanto, buttando il pedale ben oltre l’ostacolo.
Dieci anni fa, il nostro sport era la periferia del professionismo, un carretto zoppicante, impantanato in logiche maschiliste e un po’ retrò.
Lo stipendio non bastava neppure per fare le ricariche al cellulare e chiamare a casa. Le trasferte si facevano in furgoncini che serviva il segno della croce prima di portarli a fare la revisione. E tutto il resto veniva di conseguenza.
Ricordo che la sera prima di vincere la crono a squadre ad un mondiale, la passammo in un all-you-can-eat: non proprio quello che aveva prescritto il dottore, ma almeno eravamo certe che non ci saremmo alzate da tavola ancora affamate.
Ho visto tre generazioni diverse di atlete, e ognuna di esse ha portato un mattoncino alla costruzione di un modo di vivere il ciclismo. Ci sono quelle che erano veterane quando io ho iniziato a correre sul serio, donne che oggi sono direttori sportivi e manager dei team di mezzo mondo. Ragazze tostissime, che hanno scardinato i pregiudizi e che hanno accettato di farlo quasi unicamente per orgoglio e desiderio.
Poi ci sono quelle della mia generazione, cicliste di fatica e di battaglia, che hanno preso l’eredità eroica lasciata per loro e l’hanno portata avanti, convinte del fatto che la passione non possa bastare, per quanto romantica sia.
E infine ci sono le giovani, quelle con cui corro adesso, che stanno crescendo forti, in una strada senza buche, che è stata spianata per loro.
E sia ben chiaro, non esiste invidia: sono felicissima che siano libere di sognare in grande.
Oggi il nostro status è completamente cambiato, e c’è una struttura pensata apposta per sostenerci e per permetterci di pedalare e basta, senza preoccuparci del resto.
Ci sono ammiraglie, viaggi ben organizzati e materiale tecnico di qualità.
Ci sono stipendi adeguati e periodi di preparazione studiati nei minimi dettagli, che ci aiutano ad esplorare i limiti di uno sport ancora molto giovane.
Ci sono i ritiri a Livigno, in altura, dove veniamo messe nelle migliori condizioni possibili per migliorare, al pari di tutti i grandi atleti uomini che la scelgono per preparare le corse a tappe e gli appuntamenti più importanti dell’anno.
C’è, infine, la convinzione che stiamo costruendo qualcosa di importante, qualcosa di utile, con la capacità futura di portare in sella migliaia di bambine.
Una stairway to heaven, che deve essere vissuta un tornante alla volta, come lo Stelvio, senza tenere mai un rapporto che la gamba non possa sostenere, senza inseguire le distanze, le pendenze o gli sponsor dei nostri colleghi uomini.
Un percorso bellissimo, in cui ho ancora molto da fare, e che è iniziato nella semplicità di una storia italiana: familiare, faticosa, provinciale, mia.