Dall’edizione dei Giochi Olimpici di Sidney 2000 in avanti ho guardato tutte le cerimonie d’apertura per intero, con gli occhi persi dentro alla televisione, sognando un giorno di poterne fare parte anche io. In quell’edizione Pino Maddaloni vinse l’oro nel judo e nel mio cervello si accese una scintilla, un’attrazione magnetica sia nei confronti del tatami che per il fascino del grande palcoscenico.
Già da bambino ero certo che, prima o poi, ci sarei arrivato, nonostante il pensiero della gente. Nessuno credeva in me allora e nessuno ha creduto in me neppure anni dopo, a ridosso delle mie Olimpiadi, quelle di Rio 2016.
Ma questo non è mai stato un problema, anzi.
Ci ho sempre creduto soltanto io ed è stato più che sufficiente, almeno fino all’oro vinto in Brasile perché dopo, curiosamente, hanno iniziato a crederci tutti quanti.
Se devo essere sincero, li capisco quelli che diffidavano di me, quelli che non mi reputavano all’altezza. A guardare i dati, a guardare i fatti, a raccontarci a vicenda il Mondo seguendo i criteri della logica, io avevo già perso.
Prima di iniziare avevo già perso.
Ma nel mio sport l’oggettività non può esistere.
Nel mio sport devi essere magico.
Perché se non credi di poter realizzare l’impossibile, oltre che perdere di sicuro, rischi anche di farti male. Molto male.
Per rendere reale quello che gli altri non credono essere possibile bisogna pensare fuori dagli schemi, bisogna ribellarsi alle leggi della fisica e modellarle secondo i propri desideri, secondo la forma dei propri sogni.
Crescere step by step, passo dopo passo
questo dicono i professori dello sport.
Questo dicono gli allenatori, i giornalisti, i ben pensanti.
Però io non ci sto!
Quando devi salire tanti piani di scale lo puoi fare lentamente, senza correre rischi, senza metterti mai nella condizione di sbagliare e di sbattere il muso per terra.
Lavori e taci, seguendo i consigli di chi è arrivato in alto prima di te.
Il lavoro duro è una cosa che rispetto ma è anche una cosa che sanno fare in tanti.
A me il lavoro duro non basta: io voglio rischiare.
Non ho mai affrontato le mie montagne un metro alla volta e mai lo farò. Io mi divoro una rampa intera, saltando, puntando alla cima nel minor tempo possibile, perché voglio tutto e lo voglio subito.
Non diventi una leggenda a salire un gradino per volta.
E saperlo non è certezza di successo ma solo garanzia di solitudine, perché in molti, tra quelli che ti stimano, spariranno alla vista delle tue prime difficoltà.
E se in partenza, quando sei solo un ragazzo che guarda i campioni davanti alla tv, non sogni neppure di diventare una leggenda, allora tanto vale non iniziare ad inseguire il tuo momento. Perché è matematico che non arriverà.
Se non sogni in grande preparati già ad una delusione.
Ho sempre ragionato così, fin da bambino. Sono sempre stato diverso dagli altri e non mi riferisco al talento ma al modo in cui mi veniva naturale condurre la mia vita.
Quando mi affacciavo sulla scena senior c’era un altro italiano, Elio Verde, nella mia categoria che era al vertice del judo mondiale e la sua presenza mi rendeva la vita molto complicata.
Avrei potuto aspettare, in fondo io sono più giovane di lui.
Avrei potuto pensare che il mio momento andava solo atteso.
Ma io non sono fatto così e ho deciso di andare all-in, cambiando categoria, e sono passato dai 60 ai 66 chilogrammi.
Cambiare categoria quando sei un adulto già formato, avevo venti/ventun anni, è una vera impresa. Significa montarti addosso un’armatura nuova, più pesante, che ti allarga di una taglia.
Tutto diventa diverso.
È come mettersi la tuta che usava Goku, quella con i pesi per allenarsi, e andare a sfidare atleti che sono nati con il fisico diverso dal tuo. Uomini più alti, muscolarmente più dotati. Molti grandi campioni del passato hanno cambiato categoria e sono spariti dai radar. Puff: nel dimenticatoio. Ma la verità è che la tua storia non conta, quando saliamo sul tatami siamo tu ed io. Il passato non esiste più e del futuro ce ne occuperemo tra qualche minuto.
Ho ricevuto qualche critica per questa mia scelta, ovvio, anche se la Federazione è sempre rimasta al mio fianco.
Ho anche sempre pensato che se la gente parla male di te vuol dire solo che stai facendo bene il tuo lavoro, o che stai mettendo paura a qualcuno, e che quindi va bene così. Senza il dolore non si ottiene nulla nello sport in generale, figurati nel mio.
Tanto sono più forte delle cattiverie degli altri e sono certo che nessuno si aspetta da me più di quanto mi aspetti io quando mi guardo allo specchio. Anche perché, parliamoci chiaro: io voglio diventare il più grande di sempre.
Il mio primo incontro in assoluto nella categoria dei 66 chilogrammi l’ho fatto nel 2015, a pochi mesi dalle Olimpiadi di Rio, sembrava una follia anche solo provare a qualificarmi, visto che c’era gente che si preparava a quella qualifica da una vita intera.
Gente che probabilmente si è preparata step by step e alla quale io ho rubato la merenda da sotto il naso.
Quando poi sono arrivato in Brasile mi sono sentito come dentro un sogno cosciente e ancora oggi conservo una memoria delle Olimpiadi che è come il ricordo di un uomo ubriaco, con i dettagli che saltano fuori poco alla volta, a distanza di anni.
Al puzzle della mia Olimpiade manca ancora qualche pezzo.
È stata una botta d’adrenalina senza precedenti.
Durante la cerimonia di apertura, che da ragazzo era la cosa che preferivo in assoluto guardare, continuavo a ripetermi:
Fabio non ci pensare. Non sei qui. Non pensarci.
Sapevo di essere forte, sapevo di essere il più forte, ma il difficile è stato tenere me stesso ancorato al suolo, concentrato. Avevo sostenuto dei carichi devastanti per essere al top, carichi maggiori rispetto a tutti gli altri, dovevo solo riuscire a mantenere intatto il mio equilibrio.
Già prima della partenza mi rendevo conto di viverla in modo differente: non sentivo nessun tipo di ansia, solo attesa. Solo voglia.
Quando combatto non sento nulla, sono di ghiaccio. Non penso a chi sto rappresentando, a chi sono o a dove voglio andare. Penso solo al mio avversario. E a metterlo giù.
In quel periodo, in quei giorni, non temevo nulla.
Sentivo dentro di essere un momento di fiducia totale, perfetta.
Sia di testa che di fisico.
La mattina del 7 agosto, quando mi sono svegliato, ho sentito qualcosa di straordinario, uno stato di trance agonistica: ero sereno, calmo.
Ero morbido.
Nonostante alla vigilia sognassi una medaglia, una medaglia qualsiasi, quella mattina ho capito che non mi sarei mai accontentato di un argento, o di un bronzo.
Nessuno si ricorda del numero 2.
Secondo e terzo posto si dimenticano piuttosto in fretta.
Io volevo cambiare vita e solo l’Olimpiade ti permette, nel giro di 88 secondi, i secondi che mi sono serviti per vincere in finale, di ribaltare tutto quanto.
In sole 24 ore avrei potuto restituire ai miei genitori parte delle loro fatiche e delle loro sofferenze degli anni passati.
I miei sono due operai, gente che si lavora sodo ogni centesimo che porta a casa e il solo pensiero che riusciva ad infilarsi nella mia testa sgombra di quel giorno era il ricordo della mia mamma che apriva le bollette e sbuffava.
Tutto cancellato. Tutto risolto.
Dopo l’Olimpiade di Rio, dopo l’oro e le copertine, dopo il successo ho dovuto resettarmi ancora. Ho fatto un lavoro enorme soltanto per dimenticare quel trionfo, per cancellarlo completamente dalla mia memoria.
Perché quando, per una battaglia nuova, parti dal piedistallo in alto hai solo che da perdere, e la pettorina dorata del campione olimpico è un grosso bersaglio a cui puntano tutti.
Tutti vogliono farti cadere.
Ma se pensano di avere più fame di me si sbagliano.
Tutti loro. Si sbagliano.
Io voglio entrare nella storia e per farlo mi sono messo davanti agli occhi ancora una volta un obiettivo impossibile, con il desiderio di essere magico.
Sono passato ai 73 chilogrammi, ancora con il grande sostegno della Federazione, che mi è sempre rimasta accanto nella mia ricerca dell’impresa.
Già è stato difficile passare ai 66 quando avevo vent’anni, figuratevi adesso.
Ma questo sono io e io non cambierò mai.
Nella nuova categoria, quest’anno, a 12 mesi da Tokyo, ho già iniziato a raccogliere cose grandi al Grand Slam, che nel judo equivale ad un Mondiale: due bronzi e un argento nella tappa di Parigi, che è conosciuta come “il torneo più difficile del Mondo”. In più: l’argento al Grand Prix di Ekaterinburg e il bronzo ai Giochi del Mediterraneo.
Un grande inizio insomma: di questi risultati, però, nessuno parla. Sono secondari.
Ma va bene: è giusto così.
Sono io il primo a sostenere che la sola cosa che conta sia l’oro e che tutti gli altri vanno dimenticati.
Per cui: buttate pure benzina sul mio fuoco e non dimenticate di fare gli scettici.
Aspetto tutti in Giappone, terra che conosco bene e che conosce bene me.
Terra dove ho sofferto tanto e dove ho imparato altrettanto, nella quale voglio andare a scrivere una nuova pagina di storia.
Step by step. Magico.