Bode Miller

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Di gare ne ho vinte tante, e di medaglie pure.

Sono arrivato in alto, fino ad essere il migliore di tutti, e di questo mi attribuisco il merito.

Eppure la mia memoria più bella in assoluto, il momento perfetto vissuto sugli sci, non è legato ad un podio, ad una folla che esulta o ad una cerimonia di premiazione.

Le giornate migliori di tutte sono state quelle precedenti alla gara di discesa, durante le Olimpiadi di Sochi del 2014.

Sarebbero stati i miei ultimi Giochi, e il contorno rendeva tutto così grande, così carico di aspettativa e di pressione. Non potevo chiudere senza un acuto, senza mostrare qualcosa di straordinario e portare a casa un risultato pesante.

Nelle due prove cronometrate sulla Rosa Khutor, la pista che avrebbe assegnato l’oro olimpico, ho sciato come non avevo mai sciato prima in tutta la mia carriera.

Erano solo allenamenti, potremmo dire, ma mi sentivo talmente bene che provai linee e traiettorie che nessun altro avrebbe più azzardato, né prima né dopo.

Nella sola parte alta staccavo tutti i migliori di quasi un secondo, ero in un completo stato di flow.

Mai mi era successo di essere tanto ispirato, al punto di essere pronto a correre rischi, apparentemente assurdi per gli altri, ma naturali e armonici per me, che vedevo la montagna scorrermi sotto agli sci come se il tempo andasse al rallentatore.

Quando ho tagliato il traguardo di entrambe le prove mi sono ritrovato immediatamente circondato da allenatori, colleghi e addetti ai lavori di ogni sorta che si complimentavano e che mi facevano domande, quasi increduli delle scelte che mi avevano visto fare in pista pochi secondi prima.

Bode Miller

Gente che mi vedeva sciare ai massimi livelli da oltre 15 anni e che io avevo ancora la forza di stupire.

La gara poi non andò altrettanto bene, non riuscii a replicare la stessa prestazione, e alcuni, piccoli, cambiamenti climatici stravolsero il mio piano.

Ciò nonostante, ciò che ero riuscito ad esprimere su quella neve, per me, resta la cartolina perfetta di una carriera intera.

La mia eredità racchiusa in un ricordo, mio e degli altri, come se fosse dentro ad una palla di vetro, di quelle con la neve dentro che si regalano a Natale e si mettono sul camino.

Avevo fatto cose diverse da tutti.

Avevo provato a fare di più, seguendo il mio istinto e senza piegarmi mai alle aspettative degli altri. Quello era il mio sci.

Tanti anni dopo l’esordio in Coppa del Mondo, di fronte all’ultima grande gara, in cui la voglia di chiudere bene avrebbe potuto suggerire prudenza, io ero ancora alla ricerca del limite, sciando “my way”, come avrebbe cantato qualcuno.

Ecco: la mia carriera ha sempre avuto questa premessa, fin da quando forse non si poteva ancora chiamare carriera.

Avevo 7 anni quando ho deciso che sarei diventato uno sciatore professionista.

Non sognato, non desiderato, non immaginato.

Deciso.

Sono cresciuto godendo della massima libertà possibile, sempre.

Vivevamo in un bosco, distanti dalla civiltà, senza acqua corrente ed elettricità, e tutto quello che decidevo di fare era una mia responsabilità.

Non ho avuto un’infanzia convenzionale; non mi sono mai state imposte regole che non fossero quelle del buon senso e, nel limite del giusto, ero sempre autorizzato a programmare ogni singolo aspetto della mia vita.

Organizzavo da solo la mia agenda, programmavo le mie giornate.

Era mio il compito di trovare il giusto equilibrio tra le cose che mi andava di fare, quelle che dovevo fare e dare una mano in casa.

Bode Miller

Oggi che sono un genitore mi sembra incredibile di essere cresciuto così.

Ai bambini, viene chiesto di esprimere una preferenza, di scegliere uno sport, al massimo gli si concede di cambiarlo una volta o due.

Poi, tutto viene pressato in un percorso prestabilito, instradato su una via insindacabile, priva di fantasia e che toglie ogni responsabilità individuale dalle spalle dei ragazzi.

Passano da un allenatore all’altro, da un gruppo all’altro, ed ogni volta che si sale di categoria, andare al livello superiore costa energia e tempo.

Un periodo di adattamento, che distrugge le certezze costruite per poi provare a costruirne di nuove, più adatte alla nuova età e al conseguente sviluppo fisico.

La verità, però, è che nessuno va mai completamente all-in per gli atleti.

Nessuno ha motivo di scommettere sul successo del percorso più dell’atleta stesso.

Gli allenatori, anche quelli bravi, anzi, soprattutto quelli bravi, hanno carriere lunghe, molto più lunghe degli sciatori.

Carriere nelle quali gestiscono e crescono centinaia di atleti, e nell’affidarsi a loro è come se si rinunciasse a parte del controllo che si può avere sul proprio futuro.

Lo si da in prestito a qualcun altro, per ottenerne in cambio soltanto dei piccoli miglioramenti provvisori.

E così si punta ad eccellere nelle proprie categorie di riferimento, anno dopo anno, adattando la propria crescita ad una mentalità utilitaristica.

Fino al giorno in cui ti ritrovi ad avere 18 anni ed essere diventato solo uno strumento nella mani di altri, un automa che non è più del tutto il titolare del proprio talento.

Bode Miller

Per me è stato l’esatto contrario.

Quando avevo 10, 11 anni al massimo, discutevo già con i miei allenatori.

Sei terribile! Non ascolti mai!” mi dicevano.

E io rispondevo loro che: “ascolto tutto! Capisco tutto! So che mi vuoi far sciare in un certo modo, per migliorare oggi, ma ti dico che non funziona con me. Io voglio diventare bravo, voglio diventare il migliore quando di anni ne avrò 24. Non prima!”

Non deve essere stato facile prendermi sul serio quando ero poco più che un bambino, ma per me tutto aveva un senso.

Tutto nasceva da scelta ponderata, precisa, che potevo fare con convinzione assoluta, perché mi sentivo il solo responsabile delle mie idee.

Che senso aveva provare a primeggiare durante gli anni dell’adolescenza, se per farlo avrei dovuto rinunciare al mio grande disegno?

Ogni atleta ha una parabola tutta sua, e tocca il proprio vertice tecnico e fisico in un’età diversa da quella degli altri.

Io me ne fregavo degli altri, e pure del cronometro, perché avevo ben chiara quale dovesse essere la mia strada.

Non sono stato un talento precoce, non avrei mai potuto essere il nuovo Alberto Tomba perché non ero abbastanza bravo, anche se nessun allenatore aveva il coraggio di dirmelo.

Nella mia famiglia eravamo tutto alti ed esili, e per questo non sarei potuto neanche diventare il più muscoloso o il più potente del circuito.

Se avessi voluto diventare il migliore sciatore del Mondo, e cavolo se volevo farlo, avrei dovuto giocare tutte le mie carte sulla durezza mentale, sull’intensità, e sul feeling con la velocità.

Non c’erano altre strade.

Bode Miller

Dovevo imparare a riconoscere fin da subito l’amarezza delle cadute e dei fallimenti.

Dovevo imparare che cosa significasse fare errore stupidi mentre ero alla ricerca della velocità pura.

Non era un compito della squadra o degli allenatori quello di non farmi sentire da solo o di farmi sentire pronto: io dovevo imparare a gestire la solitudine ed il mio ego, entrambi cani rabbiosi che convivevano dentro di me.

Mi sono fuso con il mio sci.

Non sono mai esistite due bolle separate, ma un unica grande scommessa, diventata una grande storia, nella quale dar corpo e voce a tutte le mie idee.

Ha funzionato.

Sono passato alla storia come un atleta che ha vissuto a modo suo, quasi controcorrente, in direzione ostinata e contraria.

E non potrebbero farmi complimento più grande, perché il solo modo di goderti per davvero la corsa è averne il pieno controllo.

Funziona così: corri, vinci, perdi, cadi, ti fai male, ritorni, poi ti ritiri.

Se lo fai a modo tuo e ti diverti ne vale la pena.

Altrimenti meglio lasciar perdere, e fare qualcos’altro.

Bode Miller / Contributor

Bode Miller