Io sono cresciuto nel lusso.
Il lusso della presenza.
Le nostre stanze erano sempre piene di persone, piene di vita. Ho vissuto a lungo con i miei nonni, e anche se ne abbiamo cambiate diverse, la mia casa preferita resta quella di Santa Fe, vicino alla sede del club per cui giocavo da bambino.
Era una casa vecchia, che oggi è diventata una casa vecchissima, e anche se i miei nonni non ci sono più, non ho mai permesso a nessuno della mia famiglia di provare a venderla. A nessun prezzo.
Ora che non sono più un bambino, vivo nel futuro che mi sono costruito, dove ho comprato una casa più grande e confortevole, ma quelle quattro mura spesse non usciranno mai dalla nostra storia, perché ognuno di noi ha contribuito a costruirle.
Chi con una mano di vernice, chi con una piastrella o con un vetro rotto: tra le rughe di quel palazzo si possono andare a leggere i riassunti delle nostre giornate, delle nostre conquiste, delle nostre speranze.
Ogni mattone, un racconto.
Ogni scalino, un pensiero.
Tra tutti, quello che ha sicuramente fatto di più per renderla un posto speciale, è stato il nonno, che di mestiere faceva il muratore e che le cose le riparava da solo, con le proprie braccia. Da piccolo era il mio eroe.
Una specie di MacGyver a nostra completa disposizione, che aveva sempre una soluzione creativa per ogni nostro problema quotidiano.
Non avevamo i videogiochi, e non c’erano ancora i telefonini, allora lui costruiva per noi giocattoli di cartone e palle da calcio fatte con i vecchi calzini bucati. Ed erano bellissimi. Mi ha insegnato a disegnare e a camminare sui tetti, anche se a mio papà la cosa non piaceva perché lui soffre di vertigini.
Era un genio.
Da lui ho imparato come bruciare la punta di un bastone con la luce del sole e poi usare la cenere per scrivere. Ho imparato che problema e soluzione sono sinonimi, se hai voglia di sporcarti le mani.
E quelle, noi, ce le sporcavamo sempre.
Mani e piedi, per essere precisi, perché tranne quando ero su un campo da basket, in pratica vivevo scalzo. Io le scarpe non me le mettevo mai, che stessi rincorrendo mia sorella Florenzia, che stessimo facendo rimbalzare un pallone contro una parete o che stessi cercando di attaccarla alle spalle, lanciandole le mie terribili bombitas piene di acqua.
Le mie giornate trascorrevano così, giocando con lei e con gli altri ragazzi del quartiere, principi e giullari di un mondo largo soltanto 100 metri, esattamente quanto la strada di casa.
Rotolando nella polvere.
Costruendo giocattoli.
E sognando di diventare un giocatore di basket.
Siamo cresciuti tutti con quella mentalità lì, noi Delfino, con l’idea che non ci fosse cosa più bella che vivere dentro un gruppo e provare a farlo funzionare sempre, a prescindere dalle idee delle persone che lo compongono.
Non ci sono tennisti, nella nostra famiglia.
Non ci sono nuotatori o saltatori in alto.
Per noi la vita è sempre stata un gioco di squadra, in cui il cervello è al servizio delle gambe, e il cuore è al servizio di tutto il resto.
Mio padre è stato un professionista, in Argentina, e ha sempre insistito perché diventassi il giocatore di pallacanestro più completo possibile. Per gli standard sudamericani ero grande e grosso, un po’ come lui, e nonostante gli allenatori mi spingessero ad andare a fare a sportellate sotto il canestro, ha fatto in modo che sviluppassi anche tutte le altre qualità che servono per sfondare ad alto livello.
“Non fare i blocchi. Fatteli fare.”
“Impara anche a palleggiare.”
“Il pick and roll lo gestisci tu, non gli altri. E assicurati di fare volta ogni volta la scelta giusta”
Sono stato così bravo nel seguire i suoi consigli, che quando sono arrivato in NBA, e lui ha cominciato a dirmi di “tirare di più” e di essere più egoista, non ho potuto fare altro che rispondergli che devo sempre pensare al bene della squadra, proprio come mi aveva insegnato lui.
Ho lasciato la scuola a quindici anni, deciso a diventare un professionista, e quando mi sono finalmente deciso a riprendere in mano i libri per completare gli studi, è arrivata la chiamata dall’Italia che ha rimesso in moto tutto quanto, dando, di fatto, inizio al mio viaggio infinito.
Un giorno dovrò sedermi e pensare a come prendere il diploma, ma fino ad allora, e fin dal principio, lo sport è stato la mia educazione.
Il basket è stato la mia scuola.
Dall’Argentina all’Italia e dall’Italia all’America, andata e ritorno, con in mezzo le Olimpiadi vinte, e quelle vinte a metà, giocando sempre la mia pallacanestro. E anche se qualcuno si è stupito di vedermi tornare in campo dopo un infortunio lungo tre anni, chi mi conosce nel profondo sapeva che sarebbe successo, perché il richiamo del campo, per me, è troppo forte per non essere raccolto.
Tutti conoscono la storia delle mie sette operazioni, e di come un problema che sembrava di routine si è trasformato in calvario senza fine, ma in pochi sanno che durante quei mille giorni abbondanti senza basket mi sono arrivate decine di offerte. Allenatore, dirigente, manager, tutto tranne quello che mi sentivo e che volevo continuare ad essere: un giocatore.
Non ero ancora pronto a rinunciare alla mia gioia, perché so che niente potrà mai pareggiare l’emozione del campo, a quarantanni come a venti, e so anche che quando deciderò di smettere non sarà facile ritrovare i miei equilibri.
Oggi, mi chiedono spesso cosa penso delle cose da un punto di vista manageriale, tecnico, societario, e anche se la mia esperienza mi porta ad avere un’opinione, cerco comunque di non pensarci, di non esprimermi, per concentrarmi il più a lungo possibile sul gioco.
Incazzato dopo una sconfitta, leggero dopo una vittoria: il posto più bello da cui spostare gli equilibri è il centro del rettangolo, ed è una verità talmente semplice che a volte viene dimenticata, proiettati come siamo verso quello che c’è fuori, e verso quello che c’è dopo.
Io me ne sono ricordato quando sono stato costretto ad aspettare seduto, e ho scoperto in quel momento lì che tra un campione olimpico e uno zoppo che fa fatica anche solo a camminare c’è molta meno differenza di quel che si crede, perché sono mossi entrambi dallo stesso desiderio e dalle stesse paure.
La mia carriera finora è stata come una seconda vita, che è passata parallela, accanto al naturale scorrere del tempo, il tempo della famiglia, fatto di nascite e di morti, di figli e di speranze, e farò di tutto perché duri ancora un po’.