È tutta colpa di Alberto se ho deciso di diventare uno sciatore vero.
Uno di quelli che lo fa non soltanto per divertirsi ma anche come lavoro.
Per quelli della mia generazione, nati negli anni ’80, vedere Tomba scendere è stata la cosa più emozionante di tutte. Con il suo stile unico e potente, ti saresti reso conto che era lui anche fosse sceso senza il pettorale o senza la tuta azzurra: solo lui sciava così. Muscolare, aggressivo, si mangiava la pista, un boccone alla volta, porta dopo porta. E io, da casa, lo guardavo con il naso incollato alla televisione come facevano tutti quanti gli italiani, mica solo quelli che sciavano!
Nell’88, l’anno delle Olimpiadi di Calgary, hanno persino interrotto la diretta del Festival di Sanremo, per far vedere la seconda manche dello slalom speciale in cui scendeva lui: neppure Pippo Baudo se lo voleva perdere.
Trovarsi davanti allo schermo per guardarlo sciare era un rito per tutte le famiglie; io restavo incantato a vederlo scendere e quando andavo poi in pista cercavo di imitare i suoi gesti.
Se ho iniziato a sciare il merito è da dividere tra le mie montagne e la mia famiglia, ma se non ho mollato di fronte alle difficoltà lo devo anche al mito di Alberto.
Perché a fare lo sciatore le difficoltà si incontrano per forza e io, nel corso degli anni, non me ne sono fatto di certo mancare nessuna. Schiena, gambe, testa: la nostra carriera è spesso simile ad un bollettino di guerra e quando accumuli un po’ di stagioni i termini medici li finisci col conoscere quasi tutti, purtroppo.
Ma la primissima cosa che ho dovuto affrontare io, quando ero ancora un bambino, non è stato un infortunio ma era la mia taglia XS. Ero sempre il più magro e il più basso della classe, e per crescere sembrava che facessi il doppio della fatica degli altri.
Sono nato con due mesi d’anticipo, mia mamma dice che avevo una gran fretta di uscire per cominciare a giocare e combinare disastri, ma la verità è che il primo mese di vita l’ho passato dentro un’incubatrice.
A scuola ero il più piccolo del gruppo forse, ma nessun dubbio sul fatto che fossi anche il più attivo di tutti. Era impossibile starmi dietro, non stavo mai fermo ed ero sempre impegnato ad inventarmi qualche cosa nuova da fare.
Con il passare degli anni alcune cose ho iniziato a dimenticarmele ma dei miei giochi di bambino ricordo ancora tantissimo.
Ho fatto il bambino come ognuno sogna di fare. Senza se e senza ma.
La mia generazione ha avuto delle possibilità migliori rispetto a quella dei miei genitori, che di tempo per divertirsi, spesso, ne hanno avuto davvero poco. Penso a mio padre per esempio, lui da giovane era un prodigio dello slittino su pista naturale ma a 14 anni aveva già dovuto rinunciarci completamente e cominciare a lavorare, perché a quei tempi funzionava così e se serviva ti dovevi rimboccare le maniche presto. Se venivi da una famiglia numerosa come la sua iniziare a guadagnare qualcosa voleva dire avere una bocca in meno da sfamare e la bocca di un ragazzo di montagna, se può, mangia anche per due.
Mentre per me e per i miei compagni era diverso: la possibilità di giocare e di esplorare c’era e noi ce la siamo presa tutta, gustandocela fino all’ultimo boccone.
I nostri passatempi preferiti magari possono sembrare antichi se raccontati oggi che siamo nell’era digitale, quella dei videogiochi e dei cellulari sempre collegati, ma per noi erano piccole-grandi avventure lunghe un giorno, da scartare una per volta.
A volte scendevamo la pista sopra uno slittino, come faceva il mio papà da piccolo, mentre in altre occasioni facevamo dei piccoli trampolini con la neve dietro a casa e andavamo a saltarli con gli sci. Giocavamo a hockey, oppure a baseball.
Ma le mie esplorazioni preferite erano decisamente quelle che finivano dentro al bosco, come costruire delle dighe sui ruscelli, spremendoci il cervello al massimo per tirar su una struttura che reggesse l’urto dell’acqua. Oppure il nascondino. Giocare a nascondino in un bosco vi assicuro che è molto più divertente che farlo dentro una casa.
La mia è stata un’infanzia magnifica e se posso raccontarla esattamente così è merito dei miei genitori e dei loro grandi sacrifici.
Il babbo, messo quasi subito via lo slittino nel garage, aveva iniziato a lavorare nei campi e nei meleti, per racimolare qualche soldo e aiutare in casa, poi era finito a lavorare in una carrozzeria. Mia mamma, invece, faceva la cameriera.
Io, da piccolo, non mi accorgevo fino in fondo dei loro sacrifici, non li capivo del tutto come invece faccio adesso.
Quando è stato il momento di scegliere quale sport volessi fare sul serio, la loro opinione è stata fondamentale. Perché lo sci mi è piaciuto fin da subito, è vero, ma il mio carattere esuberante mi faceva piacere qualunque attività all’aperto e quindi la loro guida mi è servita eccome, per apprezzarlo fino in fondo. Da bambino ti piace quasi tutto ma quel tutto lo scopri grazie ai tuoi genitori, a parte forse il calcio, che in Italia piace a tutti quanti.
È ovvio che papà avesse una passione speciale per la neve e che volesse dare a me e a mia sorella Sabrina una chance nello sport, quella stessa chance di cui si sentiva in credito con l’universo, ma soltanto adesso che sono un uomo fatto mi rendo conto di quanto sia stato un privilegio che del mio divertimento abbiano fatto per anni una loro priorità.
Con gli sci ho dimostrato subito di andare molto d’accordo e la mia crescita tecnica fu costante e soddisfacente. Quasi tutto mi veniva naturale, e su quello che non lo faceva ci lavoravo con passione sincera.
La crescita fisica invece zoppicava ancora un po’: continuavo ad essere il più piccolino di tutti e quando scendevo in pista sembrava quasi che mi fossi messo la tuta di un cugino più grande, visto che mi ci perdevo dentro.
In prima superiore ero alto uno e sessanta e pesavo solamente 44 chili, come “i gatti in fila per sei col resto di due”. Ero come il rametto secco di un albero.
E quando passavo le ore a guardare quel concentrato di muscoli e di potenza che era Alberto Tomba scendere, ripetendomi: “io voglio diventare come lui”, il traguardo mi sembrava lontanissimo.
Neanche immaginavo quante montagne ci fossero in mezzo da scalare per provare ad andarci vicino. Montagne alte e coperte di neve fresca, che per scenderle devi inventarti un fuori pista.
Visto che con gli sci andavo forte i miei decisero di mandarmi alla scuola superiore di sport a Malles, così che io potessi avere le possibilità migliori per emergere davvero. Per potersi permettere la retta, mia mamma iniziò un secondo lavoro, di notte, in una panetteria.
Mi ricordo come se fosse ieri di quando lei mi recuperava appena finita la scuola, nei ritagli del lavoro da cameriera. Mi portava in macchina ai piedi delle piste e restava lì a sciare con me. In macchina mangiavo anche, al volo, e mi cambiavo, quindi iniziava il mio allenamento.
Quando il sole scendeva e tornavamo insieme fino a casa; a mezzanotte poi, quando io ero a letto, lei andava in panetteria.
Hanno avuto davvero le spalle larghe i miei genitori, soprattutto in quei primi anni trascorsi a Malles, perché i risultati iniziarono a scarseggiare un po’ e a me era venuto anche il desiderio di smettere. Non mancavano mai alle gare, nei weekend, spesso riuscivano a venire tutti e due.
Nella primissima discesa libera della mia vita mi avevano assegnato il pettorale 117 e, quindi, prima di me erano già scesi 116 ragazzi e 90 femmine, rendendo la pista un campo di patate pieno di imperfezioni. Nell’ultima esse ho incrociato gli sci e sono volato via, franando al suolo. Ho rotto: la capsula del ginocchio sinistro, il collaterale e il femore.
Quando, dopo un anno, sono riuscito a tornare in pista facevo una tale fatica da sentirmi quasi depresso; in alcune gare di slalom ho preso anche 10 secondi di distacco dai miei coetanei più forti. Dieci secondi! Neanche in una maratona! E quando ho pensato di smettere e abbandonare sono stati ancora loro a farsi forti per me e a spingermi a continuare.
L’estate successiva mi è scattato come un click dentro, qualcosa che è stato un misto di fortuna e di volontà, visto che nel mio paesino, dove ero tornato per passare i mesi senza scuola, avevano aperto la prima palestra. La prima palestra nella storia del paese, proprio quando stavo pensando di smettere: era un segno del destino. Per settimane intere mi sono chiuso lì dentro a lavorare sul mio corpo, finalmente anche la natura ha risposto presente e quando sono tornato a scuola, a settembre, ero 12 centimetri più alto e dieci chili più grosso di quando ero andato via.
Mi era veramente cambiato qualcosa nella testa, che pure è sempre stata quella di un lavoratore, ma dopo quell’estate tutto si moltiplicò all’ennesima potenza. Ricordo che una volta, appena tornati da un allenamento sullo Stelvio, mentre tutti erano rientrati a riposare in camera, io mi ero messo a correre all’aperto, per sciogliere l’acido lattico del lavoro sugli sci.
Non è stata certo quella corsa a farmi diventare migliore, ma sentire l’adrenalina di un allenamento portato a termine mentre tutti erano in branda a recuperare mi ha fatto sentire carico come non mai.
Da quel momento lì mi è stato tutto chiaro: dovevo arrivare al livello più alto.
Comunque non basta crederci per far succedere le cose, anzi. Le montagne da superare erano ancora moltissime e tante tra queste mi sono costate una fatica pazzesca.
Nel 2003, dopo aver preso il diploma, sono stato tesserato dalle Fiamme Gialle.
Tesserato, non arruolato però, il che significava difendere i colori dell’arma sciando ma ancora non esserne riuscito a farne un lavoro. Dovevo trovare un modo di guadagnare qualcosa. Non volevo più chiedere ai miei genitori i soldi per fare le mie cose.
Ed è così che sono finito a fare l’operaio in un cantiere edile. Avrei anche potuto fare un lavoro d’ufficio, in fondo il mio diploma era di ragioneria, ma la ditta del cantiere era di un maestro di sci e questo mi avrebbe permesso in autunno di tornare liberamente sulla neve.
Dopo il primo giorno di lavoro passato a smontare e montare ponteggi per dieci ore filate avevo le gambe e le braccia in fiamme: il miglior allenamento della mia vita.
- Non ti serve la preparazione se lavori qui con me! – mi diceva. E aveva ragione: arrivai in autunno più allenato che mai.
Passavo i giorni al lavoro contando quante notti mancavano prima di poter tornare sulla neve. “Ancora tre notti e vado, ancora due notti e vado”. Esattamente come fanno i bambini con i giorni che mancano al Natale.
Per quanto fare l’operaio mi sia servito molto, quando sono entrato definitivamente nelle Fiamme Gialle mi sono reso conto di quanto sia bello fare l’atleta. Ti puoi allenare come vuoi, puoi alternare gli orari che preferisci e decidere tu la tua routine. Sono libertà che in cantiere ti puoi solo sognare. Ci sono arrivato un po’ tardi al professionismo e forse è anche per quello che continuo a tenermelo stretto con tutte le mie forze.
Nel Mondo dei professionisti la mia crescita è stata costante e i risultati sono arrivati di conseguenza, facendomi arrivare in alto poco alla volta, fino anche a toccare le vette più ambite. Il problema di vincere qualcosa però è che ti crea una dipendenza.
Chi non ha mai vinto non può sapere quanto sia bello farlo.
Non può mancarti quello che non conosci.
Ma quando assaggi una medaglia il gusto ti resta in bocca e ti tormenta, diventa un desiderio fortissimo averne ancora e questo ti accende un fuoco che prima non avevi. Non potevi averlo. Non così almeno.
Ho vinto a Bormio nel 2008, partendo con il pettorale numero 1; ho vinto l’oro ai Mondiali nel 2011; ho preso un argento alle Olimpiadi di Sochi celebrandolo rotolandomi nella neve come un pazzo.
Quest’anno sono arrivato secondo a Lake Louise e di nuovo secondo a Bormio, sulla Stelvio che più ghiacciata non si poteva, nel giorno della storica doppietta italiana. Sono tutte sensazioni che non ti dimentichi, che ti restano addosso.
Ed è anche per queste vittorie che sono ancora in giro, nel circo bianco.
Perché alla stessa adrenalina di sempre posso aggiungere il sapore di queste immagini e dopo un po’, quando inizia a mancarmi assaggiare il podio, inizio a sentirne il profumo nell’aria. Ogni giorno in cui metto gli sci mi godo la sensazione della velocità, che è un brivido inspiegabile che mi accompagna per mano scendendo dalla pista, sempre con me.
Anni dopo il mio ingresso nel circuito ho anche conosciuto Alberto, ma non ho mai avuto modo di dirgli che di questa mia passione fortissima lui è responsabile a metà.
Uno se ne dimentica.
Si tende a sottovalutarlo, ma Tomba, nelle sterzate della sua straordinaria carriera, ha dato a questo sport un gusto unico nella bocca di tanti ragazzi.
Del gusto che sento io quando scendo, allora, ringrazio in egual misura lui ed i miei genitori, alzo un calice e a tutti loro faccio un brindisi.
Grazie e che sia un buon anno.