La passione di mio papà è sempre stata la bicicletta, una delle grandi tradizioni italiane.
Senza mezzi termini, senza possibilità di deviazione: a lui piacciono le due ruote.
Le salite, la pioggia e le gambe che bruciano per la fatica.
Ancora oggi si muove così per Marcianise. Solo e soltanto così.
La grande passione della vita di un padre spesso diventa la prima cottarella della vita un figlio e così quando ero poco più che un bambino mi sono messo in sella e ho cominciato a pedalare anch’io.
La passione, però, è una bestia strana, non la si può trasmettere con una semplice stretta di mano o con l’amore negli occhi: nasce da dentro e dentro rimane per tutta la vita.
È unica, ad ognuno la sua, inimitabile e accecante.
La bicicletta mi piace.
Ancora oggi, anche se ho poco tempo per andarci, mi piace.
Ma non era la mia scintilla. Non era magia.
Mi allenavo con la squadretta locale e facevo anche delle piccole gare cittadine.
Arrivavo sempre ultimo.
Ero chiattoncello e nonostante gli sforzi io arrivavo sempre ultimo.
Un giorno, in paese, incontrammo uno dei miei cugini. Uno di quei parenti a cui sicuramente vuoi molto bene, ma che non vedi poi tanto spesso, soprattutto al sud dove la famiglia è sempre piuttosto allargata.
Si era trasformato da bimbo sovrappeso a bimbo in forma e mio padre, mettendo da parte i sogni ciclistici che aveva per me, gli disse: “ma perché non ti porti Clemente?”
Era il 1993 e la mia storia d’amore con la boxe è iniziata così, nella stessa maniera in cui ne iniziano tantissime, per chiunque: un po’ per caso, un po’ per culo e un bel po’ perché era destino e quello non c’è modo di metterlo al tappeto.
Sono 26 anni che pratico la boxe, pochi meno, 22, che combatto, salendo su un ring dove qualcuno grosso come me mi sta aspettando per provare a darmele e per cercare di non prenderle.
22 anni: potrei anche sentirmi saturo.
Oppure stanco.
Oppure stufo.
Avrei potuto metterci un punto.
E invece no.
Oggi si parla di crisi economica. Da più di dieci anni ormai non si discute di altro, come se fosse un problema esclusivo di questo periodo storico, come se la vita prima fosse facile e agiata per tutti.
Nella palestra di Marcianise, quando ho iniziato io, si affrontava già l’argomento e probabilmente lo avevano affrontato anche i ragazzi della generazione precedente.
E quelli ancora prima di loro.
Si parlava di come la boxe potesse essere un’occasione per trovare il proprio posto nel Mondo, un mondo in cui alcuni di loro facevano fatica a mettere insieme il pranzo con la cena.
Perché certi ambienti possono essere complicati a prescindere dallo stato dell’economia e della politica.
Perché non sempre la strada da percorrere per diventare adulti è dritta, o ben pavimentata. A volte si interrompe prima di riuscire a diventare grandi.
Anche se la società prova sempre a nascondere quello che è diverso, come si fa con la polvere sotto al tappeto, quello, lottando, se ne viene fuori perché a tutti quanti piace la luce del sole.
© Luca Nava
Io sono cresciuto in quella palestra, imparando a combattere nella maniera giusta di farlo, con la cattiveria e la costanza di chi deve sempre guadagnarsi tutto.
Incontro dopo incontro.
Ecco perché non sono assolutamente stanco della boxe.
Ecco perché sul ring sento ancora di avere più fame del mio avversario.
Dicono che sono vecchio: li sto aspettando i giovani.
Li sto aspettando.
Il pugilato ragiona di quadriennio in quadriennio. Come succede anche per tanti altri sport sono le Olimpiadi a far girare la ruota e intorno a quelle si costruisce tutto: allenamenti, preparazioni, ricerca degli sponsor. Tutto quanto.
Quattro anni sono lunghi da pianificare ma veloci da vivere, ti passano sotto le mani in un istante perché i tuoi occhi sono fissi sul grande obiettivo finale.
Bisogna prendere bene la rincorsa per provare ad arrivarci lanciato alla massima velocità, perché dietro ad ogni singolo partecipante di ogni singola gara olimpica c’è una preparazione feroce e precisissima.
Fatta apposta per quel giorno lì.
Devi essere al tuo meglio in tutto, perché gli altri lo saranno di sicuro.
Io ho sempre avuto un rapporto speciale con i Giochi.
Prima di Rio ne avevo già fatti 3 e per due volte, Pechino e Londra, mi ero pure portato a casa una medaglia.
Due medaglie d’argento: belle, pesanti.
Medaglie importanti.
Ma l’argento vuol dire essere arrivati secondi e arrivare secondo nella boxe significa aver perso un incontro. Perdere nella boxe non è come negli altri sport. È di più.
Non è come fare un gol in meno, o metterci un secondo di più a fare un giro.
Significa aver lottato ma non aver vinto.
È profondamente diverso: ti lascia delle cicatrici, ti lascia dei pensieri.
Ti fa venire la fame di vittoria proprio nel momento in cui la tavola è stata sparecchiata.
Per questo avevo messo nel mirino Rio 2016 con l’idea di trasformare quelle Olimpiadi nella mia ultima grande interpretazione sul ring. Io volevo l’oro. Andavo in palestra tutti i giorni e mi allenavo più duramente che mai solo per quello, non avrei accettato da me stesso niente di meno del traguardo massimo.
I quattro anni di avvicinamento però non sono iniziati nel modo migliore: nell’autunno del 2013 sono nate le due gemelline, Janet e Jane, e sono nate di appena 30 settimane.
Una pesava un chilo e cento, l’altra solo 900 grammi.
Sono stati giorni durissimi nei quali loro erano ovviamente la sola cosa che contava, loro e le altre donne della mia vita: Laura e Rosy.
Le guardavo nell’incubatrice e mi chiedevo se fosse giusto continuare ad allenarmi, continuare a preparare un Mondiale, che sarebbe dovuto essere il mio primo passo di avvicinamento alle Olimpiadi brasiliane.
È stato il coraggio di mia moglie a darmi la forza di fare tutto: di essere presente il più possibile per la famiglia e allo stesso tempo di continuare a lavorare duramente per inseguire il mio sogno sportivo.
Mi ha convinto lei ad andare al Mondiale di Almaty, dal quale sono tornato con una medaglia d’oro che voleva dire tante cose diverse. Tutte cose importanti e tutte cose vere.
Così è cominciato il cammino verso quelli che credevo sarebbero stati i miei ultimi giochi, in una corsa ad ostacoli che ha messo a dura prova l’uomo e il combattente che sono.
Ho fatto tutto quello che era in mio potere per potermi allenare il più possibile vicino a casa, mi sobbarcavo milioni e milioni di chilometri per dare da mangiare ad entrambe le mie anime: l’uomo, che è marito e padre, e il pugile, che è un professionista feroce.
Vivevo con un borsone sempre pronto in macchina, con il piede sull’acceleratore per andare ad allenarmi nei raduni e per tornare a veder crescere le mie piccole.
C’è stato altro, ovviamente, nel mezzo.
Ma arrivato a Rio quello che riuscivo a sentire scavandomi nel cuore erano le ombre delle tappe più dure degli ultimi mesi, quelle cose talmente importanti da aver modellato il mio presente in funzione loro: i due argenti delle edizioni precedenti, la paura per le gemelle, il coraggio di mia moglie, i chilometri infiniti.
Tutto sembrava disegnato per salire insieme a me sul ring brasiliano, a ricordo e sostegno di quello che avevo fatto per essere lì, come la trama di un libro a lieto fine di cui volevo scrivere con l’oro l’ultimo capitolo.
E invece no.
Non è andata come immaginavo.
Il primo match, contro il tunisino Chaktami, fu bruttino, ma ci sta: rompere il ghiaccio con le grandi manifestazioni vuol dire romperlo con tutto il bagaglio emotivo che ti stai portando appresso. Il primo incontro conta vincerlo e basta.
Nel quarto di finale contro il campione del Mondo in carica Tishchenko oltre a giocarmi un ingresso in semifinale, che è già una medaglia, sentivo che stavo per mettere sul piatto gran parte delle mie aspettative di vittoria finale.
Per fare il colpo grosso dovevo passare da lui.
Quell’incontro però fu un più che discreto furto.
Anche chi non capisce nulla di boxe può vedere che quel match io l’ho vinto, senza dubbio.
Che al russo poi abbiano regalato anche la semifinale e la finale, nella quale un kazako lo ha persino messo a terra, non mi ha certo aiutato a venire a patti con il mio enorme e doloroso dispiacere.
Ero ferito, con l’amaro in gola e alla ricerca di una valvola di sfogo.
Cercavo di reagire motivandomi nelle piccole cose, perché ciò che più di tutto mi lasciava dolorante era la consapevolezza di essere pronto, di essere in formissima.
Mi sentivo come un animale selvaggio che è appena stato catturato e che guarda chi l’ha preso da dentro la gabbia: se il bracconiere ha la folle idea di aprirla non ci sono dubbi su chi vincerà il secondo round.
Mi sentivo così dispiaciuto e in forma da chiedere di sfidare Deontay Wilder, che era passato al professionismo ed era il campione in carica, ma lui non rispose mai alla mia richiesta, forse memore della sua sconfitta nel nostro unico incrocio avuto in carriera, a Pechino 2008.
Ero triste, arrabbiato: ho deciso di dire basta.
Avevo già un accordo per partecipare al Grande Fratello e credevo che un’esperienza nuova mi avrebbe fatto sentire meglio.
Com’è andata nella casa lo sanno tutti, dove per una montatura mediatica, sproporzionata rispetto ai fatti, sono stato distrutto dall’opinione pubblica.
Due mazzate in pochi mesi, dal mio sport e dall’opinione pubblica: due delle cose che mi avevano dato di più nel corso della mia carriera.
Mi sono ritrovato sul divano, privo di energie, svuotato e completamente demotivato.
Soltanto mia moglie e le mie bambine riuscivano a parlarmi e a smuovermi qualcosa dentro. Poco, ma comunque qualcosa.
Poi un giorno il destino si è presentato di nuovo, non alla porta ma al telefono questa volta. Era un giornalista, di cui ora non ricordo neanche il nome, ma più del messaggero qui contava il messaggio:
Clemente ma lo sai che adesso che hanno allungato il limite massimo a 40 anni tu potresti essere l’unico pugile di sempre a fare 5 Olimpiadi?
Sarebbe un Guinness World Record!
Sono saltato in piedi sul divano e il giorno seguente ero in palestra a lavorare per il mio nuovo sogno olimpico, la mia nuova sfida impossibile, diventata importante come l’ossigeno nel momento esatto in cui si è presentata per la prima volta alle mie orecchie.
Perché la sfida vive dentro al mio cervello e dentro al mio cuore sempre: è carattere e me lo porterò dietro per tutta la mia esistenza.
La voglia di intravedere lontano un traguardo nuovo, a cui nessuno crede che riuscirai ad arrivare, e poi andarmelo a prendere. Questo è il mio segreto: non aver mai pensato di essere arrivato da qualche parte ma solo di aver raggiunto una vetta dalla quale è possibile guardarmi intorno per cercarne una ancora più alta.
E il modo giusto di farlo è quello che ho imparato nella mia prima palestra e che ancora mi accompagna: sapere che sul ring non sale Russo, ma ci sale Clemente.
Ci sale la persona, il pugile.
Non la sua immagine pubblica.
E il pugile che sono quando guarda un avversario si convince ogni volta di una cosa, sempre uguale e sempre vera:
che io sono troppo forte per te.