Ho una passione sconfinata per i pomodori. L’ho da sempre. Sin da quando ero piccola, spesso passeggiavo per le strade di Torino con un grosso pomodoro maturo. Viceversa, tutti gli altri bambini mangiavano un gelato. Ne avrò consumati a tonnellate, per lo più crudi. Anche nel cuore della notte, se avevo voglia di mangiare qualcosa, aprivo il frigo e ne mangiavo uno. Così mia madre, iniziò a prepararmi delle ciotole di riso bollito in modo che le potessi trovare di notte, nel caso in cui avessi avuto un “attacco” di fame.
Certi modus comportamentali (spesso stereotipati) impostimi non hanno sortito alcun effetto e non hanno fatto breccia nel mio carattere perché sono una persona abbastanza testarda e sicuramente molto tenace. Ho quasi sempre voluto agire prendendo delle decisioni in prima persona, assumendomene tutte le responsabilità.
Prima delle gare, per esempio, mentre la maggior parte degli atleti cerca la concentrazione massima, io, al contrario, dormo. Il cosiddetto pisolino.
E’ un rituale che mi accompagna sin da quando ero bambina; ogni giorno mia mamma veniva a prendermi in bus per accompagnarmi dalla scuola all’allenamento. Il viaggio era lunghissimo perché dovevamo attraversare la città, ed io, dopo aver fatto merenda, mi addormentavo sul sedile, vicino a lei.
A quel tempo non avevamo la macchina, in effetti non la possediamo neanche ora. Papà infatti ha un problema di vista e mamma, dopo essere stata vittima di un tamponamento quando io ero nata da poco, ha deciso che non vuole più guidare. Inoltre, mantenere un’automobile era ed è assai dispendioso e la mia famiglia ha sempre avuto altre priorità su cui investire.
Ad esempio acquistando libri, preferibilmente quelli di storia; ne sono sempre stata circondata in casa e per questo, rispetto ai miei coetanei che normalmente si dedicavano a cose più futili, a me venivano spiegati argomenti seri, come ad esempio l’apartheid.
Questo è il Mondo Daisy: oltre a te ci sono molte altre cose.
Sono cresciuta precocemente rispetto agli altri, comprendendo le problematiche che caratterizzano la vita di un adulto e come far fronte ai momenti di difficoltà di varia natura. Ho impressa nella mia mente l’espressione di mio padre o di mia madre quando trovavano nella buca delle lettere la bolletta della luce. E’ incredibile pensare come un semplice “foglio di carta” possa cambiare “in peggio” una giornata iniziata bene.
Quando ero piccola facevo molta fatica a relazionarmi con gli altri bambini. Vivevo in un mondo tutto mio e poche persone vi avevano accesso. Ero decisamente chiusa ed era come se parlassi un’altra lingua rispetto ai miei coetanei. Solo i miei genitori riuscivano a comunicare con me e a darmi i giusti consigli e comunque trovavano sempre la maniera per farmi capire le cose.
Loro erano semplicemente i miei migliori amici.
Certo, chi mi conosce adesso ha davanti un’altra Daisy, completamente diversa da quella bambina introversa e timida. Oggi sono una persona estroversa, che ama confrontarsi con il prossimo, che ama discutere, sempre attiva.
La prima persona, oltre ai miei genitori, che è riuscita a scardinare la mia timidezza è stata la maestra Antonella, che ho avuto la fortuna di avere come docente in seconda elementare nonostante il mio primo approccio con lei si concretizzò in una frase poco simpatica e poco diplomatica:
Dov’è la maestra dell’anno scorso? E poi tu chi sei? Io, a te, non ti voglio!
Nonostante siano passati tanti anni, la maestra Antonella è una delle pochissime persone a cui telefono prima di una gara o prima di prendere una decisione importante. Nonostante continui a chiamarla maestra la considero a tutti gli effetti parte della mia famiglia. Attualmente è la maestra di mio fratello minore e credo proprio che non riuscirà più a “liberarsi” della famiglia Osakue.
Oggi sono più sicura di me stessa, esprimo sempre il mio punto di vista e devo renderne merito alla maestra Antonella ma anche allo sport, principalmente all’atletica che mi ha reso una persona migliore rafforzando determinati valori. Il primo spogliatoio condiviso con un gruppo di atleti mi ha consentito di essere maggiormente aperta con i miei colleghi. Mi ha spinto a parlare e a raccontarmi. E quel gruppo fa ancora parte del mio cerchio più ristretto di persone a cui voglio bene e per le quali ci sarò sempre.
E viceversa.
In casa lo sport ha sempre avuto un ruolo importante; mia mamma giocava nella nazionale nigeriana di pallamano ed è stato grazie a questo che ha conosciuto papà, che invece praticava il judo. Quando è arrivata in Italia mamma ha continuato a giocare a pallamano con una squadra che si chiamava: “mamme scatenate”.
Era ed è ben voluta da tutti perché quando arriva lei, sugli spalti, o più semplicemente in un ambiente chiuso la sua presenza si fa sentire.
All’inizio i miei discutevano tra di loro per decidere quale sport dovessi praticare. Papà ha provato a farmi fare judo. All’inizio mi divertivo. Poi quando mi hanno fatto la prima presa da dietro, proiettandomi a terra sul materasso, ho intuito che non era lo sport della
mia vita.
Basta così grazie. E tu papà, che lo fai da sempre, non hai capito niente della vita!
Mamma ridacchiava sotto i baffi, perché ora toccava a lei provare, e scelse per me il tennis. Scelta che ha funzionato per un periodo. Per sei anni circa.
Data la distanza che c’era tra casa e il campo, le ore che dedicavo al tennis erano le stesse che trascorrevo sul pullman che attraversava Torino, quello del pisolino.
Il tennis mi piaceva anche perché non era uno sport di squadra e mi dovevo confrontare con gli altri in autonomia.
Io. Da sola. Per conto mio, senza dovermi preoccupare dell’impegno altrui, che può venir meno all’improvviso e che può farti imbestialire se il colpevole è un tuo compagno di squadra.
Poi è arrivata l’atletica.
Ci arrivai per caso, grazie all’intuizione di un insegnante di sostegno, Giorgio Griseri detto “GG” che insistette per portarmi al campo e farmi fare dei test di corsa, salti e lanci.
All’inizio tutto quell’allenamento lo consideravo propedeutico al tennis ma con il passare dei giorni ho iniziato a gasarmi. Andavo al campo di atletica una volta a settimana, poi due, poi tre, finché mia mamma un giorno mi disse di scegliere, convinta che avrei scelto il tennis.
Quando ho avuto finalmente il coraggio di dirle che avrei preferito l’atletica a casa mia è
stato il panico.
Per 5 minuti: il panico.
Mamma ha provato fino all’ultimo ad opporsi a modo suo, discuteva con il mio allenatore sostenendo la pericolosità della corsa ad ostacoli:
La mia bambina non può farsi male!
Ma credo che in fondo le dispiacesse solo che, dopo aver battuto il papà per la scelta dello sport, si ritrovasse sconfitta da un insegnante di sostegno sconosciuto.
Oggi tutto il movimento sportivo conosce mia mamma.
Tutta la Fidal conosce mia mamma.
Tutto lo staff dell’Universiade conosce mia mamma.
È una curva calcistica composta da una persona sola. Capace nel 2011 di salire la mattina su un autobus che da Torino l’ha portata a Jesolo con il mio fratellino piccolo, assistere al campionato italiano, vedere la mia finale vinta sugli 80 ostacoli, baciare ogni singola persona presente nello stadio e fare in serata il percorso inverso tenendo per tutto il viaggio di ritorno la mia medaglia al collo.
In quel periodo ai campionati italiani di atletica praticavo più specialità.
Gli ostacoli: sempre.
Poi sceglievo a rotazione un’altra gara tra quelle per le quali ero in grado di fare i minimi richiesti.
Nel 2013 però mi sono presentata con un piede infortunato, una microfrattura da stress, e gli allenatori mi consigliarono di evitare gli ostacoli e di dedicarmi esclusivamente ai lanci.
Così evitiamo complicazioni!.
Mia mamma, che aveva ormai cambiato partito politico, sosteneva che dovessi fare comunque gli ostacoli, per i quali sembravo essere più portata.
Alla fine, in quell’anno, arrivai terza nel lancio del peso e prima nel lancio del disco tra lo stupore generale, soprattutto quello di mio padre che in casa mi chiama hippopotamus, termine inglese del quale non credo servano traduzioni.
Per lanciare serve grazia, equilibrio. Come fai tu a fare questi risultati?
Grazie papà, ti voglio bene anch’io.
A primo impatto ero titubante perché le altre lanciatrici erano grandi e prestanti, io invece mi vedevo piuttosto gracilina per la specialità ma il tempo e l’allenamento hanno dato i loro frutti.
Prima il tempo e poi il lavoro, a dire il vero, perché ero un’atleta molto pigra e facevo di tutto per saltare pezzetti di allenamento. Mi nascondevo dietro agli alberi o dietro ai materassoni. Se c’era una distanza superiore ai 300 metri da correre io salutavo tutti e facevo finta di andarmene, poi qualcuno mi lanciava una scarpa e tornavo mestamente in gruppo.
Mi ci è voluto molto per capire l’importanza di affiancare al mio spirito combattivo anche una tonnellata di allenamento. O giù di lì.
Lo spirito combattivo invece c’è sempre stato: da piccola giocavo a calcio con i miei cugini ed ero l’unica femmina del gruppo. Non ricevevo nessun trattamento speciale da parte loro e per giunta perdevo sempre.
Così ho imparato che vincere è decisamente meglio che perdere.
Ovviamente non sempre tutto va secondo i piani sia nello sport che nella vita.
Non accadeva da bambina e non accade neanche ora.
A volte lancio il disco contro la gabbia ed è nullo.
E quando succede tocca a me ritrovare gli stimoli giusti per ripartire.
Quando cresci in una famiglia di immigrati molto spesso le difficoltà ed i problemi sono diversi rispetto a quelli di una famiglia normale. Molte volte le famiglie che sono costrette a cambiare tutto per avere un futuro migliore devono fare i conti anche con la precarietà. Alcuni affetti li hai lasciati nel paese di origine, altri sono stati rimpatriati.
Altri ancora hanno intrapreso strade differenti, non sempre virtuose.
Forse anche per questo la lezione dei miei, quella di raccontarmi le difficoltà della vita è arrivata molto presto. E per ciò gliene sono grata.
Sapere le cose nobilita l’uomo, lo prepara a quasi tutto quello che incontrerà nella su vita. Quasi, soltanto quasi perché parte di quello che ci accade resta un mistero inesplicabile, impossibile da capire e al tempo stesso anche da dimenticare.
Quando si guarda la mia carriera sportiva salta all’occhio l’esperienza americana, l’anno di college che mi ha permesso di riscrivere tutti i miei limiti. Eppure in pochi sanno che quella per me fu una fuga.
La fuga da una realtà troppo dura per poter essere affrontata di petto.
Mentre andavo a Rieti per gli italiani del 2016 sono stata colpita da un lutto personale.
Un lutto giovane, piombato all’improvviso in mezzo a noi e, si dice, conseguenza di una scelta cosciente.
Ricordo come tutti provarono a proteggermi dalla notizia, come se il silenzio potesse congelare anche il tempo, e ricordo le preghiere che le dedicai quella sera stessa, fianco a fianco con una suora del convento che ci stava ospitando.
Molte volte mi sono chiesta se avessi sbagliato qualcosa.
Stasera non posso uscire, ragazze, perché domani mi alleno!
Una, due, tre cene saltate con le amiche di sempre, tempo speso lontano da un malessere che forse avrei potuto intercettare.
Mi sono incolpata per settimane di questo, lo sport è passato in secondo piano, come un sole che tramonta dietro il profilo del mare e quello che resta, a te in spiaggia, è un’ustione sulla pelle. I miei risultati sportivi risentirono molto della situazione negativa che stavo passando.
Avevo vent’anni.
Mi sono messa a lavorare in un negozio di articoli sportivi per impegnare le mie giornate e per non pensare troppo.
Quando è arrivata la proposta di andare al college è stata una benedizione perché tutte le mie energie si sono focalizzate lì, sui preparativi, sulle conseguenze, persino sul dispiacere di andare lontano. E mi ha permesso di trovare un nuovo centro di equilibrio.
Alla festa a sorpresa per la mia partenza abbiamo pianto tutti. Tutti tranne mio fratello
piccolo perché lui dormiva.
Non volevo partire ma sapevo di doverlo fare.
Come un pellegrinaggio.
Come una rinascita.
Mi sentivo sola negli States, ma i risultati arrivavano e continuavo a progredire. Questo ha spostato un po’ il mio baricentro, permettendomi di scendere a patti con il passato.
Perché bisogna anche dire che questa sono io, Daisy, alla quale ogni anno capita sempre qualcosa di strano, o di brutto, ma che alla fine riemerge tutta intera, come da un’apnea infinita.
In fin dei conti nulla mi stupisce, neppure quello che mi ha ferito, perché il mantra di inizio lezione me lo ricordo sempre molto bene:
Questo è il Mondo Daisy: oltre a te ci sono molte altre cose.
Io al Mondo e a tutte le altre cose cerco sempre di sorridere per prima.