Iniziare a frequentare i campi da basket è stata una diretta conseguenza della carriera del papà. Ha avuto una grande influenza su di me e, grazie a lui, ho potuto respirare fino da subito il profumo dello sport di alto livello.
Mamma ha sempre fatto parte di un mondo completamente differente, altrettanto interessante, però, automaticamente, andando a vedere gli allenamenti dei grandi mi sono innamorato della pallacanestro.
È nato lì il mio desiderio.
La passione.
Da lì ha continuato e continua tutt’oggi, perché quella è la parte fondamentale: quando passano gli anni e la passione resta uguale.
A prescindere da quale sia il palcoscenico sul quale stai per esibirti.
I miei primi palcoscenici, per esempio, non erano esattamente quelli dei settori giovanili più prestigiosi del Paese, ma ciò nonostante sono state proprio quelle esperienze a mettere il mio gioco sui giusti binari.
Piccole squadre, come Milano3 e Ombriano.
Eccellenze locali, alla distanza massima di 40 minuti di macchina da casa, che mi hanno dato l’occasione, per prime, di mettermi davvero alla prova.
Non mi offrivano solo la possibilità di fare un campionato nazionale, ma di farlo da protagonista. Erano sì, gruppi forti ma dove io potevo già dire la mia.
Pensando al modo migliore di guardare al futuro.
Capita spesso che quando sei il più alto ti mettano subito sotto canestro.
Ti dicono semplicemente:
piglia la palla, corri di là e fai un blocco.
Così facendo, però, resterai sempre lo stesso giocatore.
Potrai crescere ma senza ampliare mai sul serio il tuo bagaglio tecnico.
Senza avere mai l’occasione di diventare qualcosa di più.
Qualcosa di meglio.
Io, in questo, sono stato fortunato, fin da piccolo.
Ci sono stati anni in cui non ero il più alto o il più grosso di tutta la squadra, perché mi sono sviluppato abbastanza tardi, però ho sempre avuto una struttura fisica importante. E comunque gli allenatori mi hanno permesso di avere quasi sempre la palla in mano.
Ho giocato per tanti anni da playmaker puro, ed è stata una cosa fondamentale per la mia crescita tecnica.
Imparare a vedere il campo.
Capire come equilibrare al meglio la distribuzione tra le soluzioni personali e il coinvolgimento del resto della squadra.
Comprendere l’importanza di ogni elemento del quintetto, fosse anche solo per un blocco ben portato, o per un taglio fatto proprio con il timing giusto.
Una grande eredità, che mi torna utile ancora oggi, nella pallacanestro moderna, che è tanto diversa da quella in cui ho iniziato, quindici anni fa.
Chissà che un giorno io non possa tornare di nuovo alle origini e gustarmi una stagione intera in cabina di regia, sarebbe un bel modo di chiudere il cerchio.
Quando penso alla mia formazione sportiva, rivedo come in ogni singolo anno ci siano stati dei momenti fondamentali.
Veri e propri bivi che determinano l’atleta che diventerai, il tuo livello, la tua durezza mentale. Sono istanti in cui nessuno può decidere al posto tuo.
Sono le prime, reali, responsabilità che incroci sulla via e neppure sai quanto impatto avranno sul futuro che ti aspetta.
Tutti abbiamo visto ragazzi, forti oppure no, che potevano prendere una strada piuttosto che un’altra.
E basta poco.
Basta poco ad indirizzare pesantemente il resto del percorso.
Non tutti i talenti sono uguali, certo.
C’è chi sale la scala fino in cima e chi si ferma prima, ad un livello intermedio, ma i meccanismi che ti permettono di superare un problema e di scavalcare un altro gradino, sono sempre simili.
L’attitudine ad andare oltre la devi creare presto.
Io ho fatto tutta la scalata.
A 15 anni in B2, poi abbiamo fatto la promozione e quindi l’anno dopo è stata B1.
Pavia, in A2, la stagione seguente.
Milano.
Infine l’America.
Nell’anno della B1 ho iniziato la stagione come undicesimo o dodicesimo uomo, e giocavo solo nel cosiddetto garbage time. Speravo che la squadra andasse sopra o sotto di venti punti così da poter mettere il piede in campo.
Alla fine del campionato, nelle ultime partite e poi nei playoff, ero diventato il sesto uomo. Fu una conquista vera.
Ed è stato importante per me vedere che il momento era cambiato.
Vedere che come giocatore io ero cambiato.
L’interruttore l’avevo girato da solo.
Mi ero preso dello spazio, in una squadra forte.
Realizzarlo è stato fondamentale.
Anche per gli anni seguenti.
È evidente che tra la B1 e i Knicks ci sia un abisso.
Una vetta che non ho preteso di scalare in una notte, ma per la quale ho lavorato un mattoncino alla volta.
Vivevo da solo da quando avevo 14 anni e avevo trascorso due stagioni in una metropoli moderna come Milano. Dalla prima superiore in avanti avevo cambiato scuola praticamente ogni anno, imparando a rapportarmi sempre con persone diverse.
Per cui, quando sono arrivato a New York, dove tutto viene portato all’ennesima potenza, ero già abituato ad adattarmi ai cambiamenti e ho trovato con facilità il mio spazio.
Poi ci sono anche cose per le quali è impossibile prepararsi, e la Grande Mela, in questo, è micidiale. I giornalisti, per esempio, sono sempre a caccia della bad story, che interessa certamente di più del risultato della partita, e sono pressioni che devi imparare a gestire in fretta. Soprattutto quando la squadra non vince.
Lo stacco principale tra l’Italia e l’NBA è stato imparare a gestire un approccio tanto diverso. Ero abituato a giocare una, massimo due partite a settimana, e alla mentalità europea dove l’importante è vincere quella partita lì. Punto.
Se giochi la domenica e perdi ti aspetta una settimana di musi lunghi e di allenamenti duri, che non vedi l’ora di giocare la prossima.
Così vincere, a volte, diventa un sollievo più che una gioia.
In America invece ogni 24, o 48 ore al massimo, cancelli tutto.
Reset completo.
Nuova partita da giocare.
Nuovo scouting da studiare.
Nuovo aereo da prendere.
Nei primi due anni a New York perdevamo sempre e dopo ogni sconfitta nessuno diceva niente. Non l’allenatore, non la dirigenza, non i giocatori.
Io ero abituato all’Italia, dove se perdi arrivano, in sequenza: il presidente, il General Manager e lo staff tecnico. Il messaggio, sempre lo stesso: non importa come, ma la prossima la dobbiamo vincere per forza.
Sono due dimensioni completamente diverse.
Poi, con il tempo, capisci che ci sono società che vogliono vincere anche qui, negli States, e per loro la pressione raggiunge dei livelli inimmaginabili, anche per l’Europa, perché il talento nella Lega è talmente tanto che ogni singola sera rischi di perdere.
Contro qualunque avversario.
Ogni notte è una battaglia, ben distante dalle semplificazioni giornalistiche che vogliono l’NBA essere una passerella fino all’inizio dei playoff.
In un contesto così competitivo il difficile è capire che il modello americano è più attento al business rispetto a quello Europeo.
Devi comprenderne le regole e accettarle.
Devi capire che spesso, per la tua squadra, sei un numero, oppure solo un contratto da usare come pedina di scambio per un prospetto più giovane di te.
Allo stesso tempo però devi anche riuscire a mettere il fuoco in ogni partita, perché altrimenti non riesci a esprimere il tuo meglio.
E il tuo meglio deve sempre essere on display per riuscire a emergere qui.
Per questo la durezza mentale fa tutta la differenza del Mondo.
In NBA ma non solo.
A 15 anni come a 30.
All’inizio di questa stagione a OKC nessuno ci dava fiducia o credeva che avremmo avuto un’opportunità di fare i playoff e quella è stata una molla decisiva per fare un ulteriore step avanti. La squadra è stata costruita con un mix perfetto tra veterani e giovani, ma a rendere tutto davvero speciale era il fatto che ognuno di noi, chi per indole, chi per contratto e chi per il momento della carriera, fosse sempre affamato.
Giocavamo incazzati.
Ogni partita.
Pur partendo di rincorsa, giocavamo un gran basket.
Questo nuovo equilibrio è il risultato di un percorso, fatto all’interno di una Lega durissima, ma iniziato quand’ero soltanto un adolescente innamorato del gioco.
Ho sempre avuto la fortuna e il merito di lavorare duramente sulla mia leadership, cercando di essere uno di quelli che guidano con l’esempio, e non con le parole.
A volte la leadership emerge offrendo semplicemente alla squadra la propria versatilità, mettendo tutte le qualità che hai al servizio della visione d’insieme.
Adattarsi al gioco che cambia è parte dello sviluppo tecnico di un giocatore, anche quando ha raggiunto il pieno della maturità, perché c’è sempre un nuovo orizzonte da andare a prendere.
Capita che gli infortuni si mettano di mezzo e rallentino il percorso.
Oppure può succedere di ritrovarti in squadre in cui non ti viene dato lo spazio per essere uno dei leader dello spogliatoio. E quando è successo a me non mi sono sentito per niente a mio agio.
Ma tutto questo è un processo, bellissimo e stimolante, che, a pieno titolo, definisce il successo e l’insuccesso nello sport.
La mentalità vincente nasce lì, dal desiderio di andare oltre, qualunque sia lo scoglio che ti si para davanti, per provare a costruire una miglior versione di te stesso e della tua squadra.
Da Lodi a New York.
Da Milano3 a Denver.
Dalla B2 all’NBA, esistono leggi universali, che riuniscono in parquet diversi, ma dentro allo stesso gioco, le ambizioni di tutti ed è per questo che lo sport non è mai soltanto sport.