L'attesa è inconcepibile.
Per alcuni di loro aspettare il proprio turno è semplicemente impossibile.
Non ci riescono.
Entrano dal panettiere e cercano di farsi servire immediatamente, scavalcando con candore chi è entrato prima.
Non possono impedirlo: è una reazione naturale per alcuni di loro, la sola cosa logica da fare quando gli occorre qualcosa.
Per altri invece il difficile è proprio riuscire ad arrivarci alla porta del negozio, farlo senza eccessiva fatica, senza sofferenza.
Farlo godendosi la passeggiata che li ha condotti fino a lì.
Ed è qui che noi vogliamo vedere i frutti dei nostri e dei loro sforzi.
Dal panettiere, in posta o dal gelataio.
È in questo momento, quando tutti ci togliamo gli scarpini e ce ne andiamo a fare le commissioni quotidiane, che la qualità della vita può veramente aumentare o diminuire.
In quell'istante, in quella conquista, quella di un'attesa diligente, quella di una camminata senza sforzo, proprio lì io sono felice dei progressi fatti e sono rammaricato di quelli ancora da fare.
Circa tre anni fa in un giorno d'autunno si è presentato al nostro campo d'allenamento di Torino Omar, armato di tacchetti e buona volontà.
Omar aveva diciassette anni all'epoca, ed è un giovane, brillante ragazzo di origine italo-egiziana.
È affetto da una grave disabilità motoria legata all'uso dei tendini delle gambe.
Omar non può correre.
Non può nemmeno camminare in maniera corretta.
I rattrappiti tendini delle sue gambe lo costringono ad una posa innaturale, arcuata; gli rendono insensibile una parte del piede e trasformano ogni suo spostamento in un'operazione difficile, dolorosa.
Ma Omar, come tutti i ragazzi che si allenano con noi, vuole fortemente giocare a calcio, e noi facciamo il possibile per renderlo il miglior atleta possibile.
Quanto è disabilitante suddividere i ragazzi disabili in gruppi diversi solo a seconda della loro disabilità?
Da un lato chi ha questo.
Da un lato chi non ha quello.
E così si spartiscono, si impacchettano e sigillano dentro compartimenti non comunicanti tra loro.
No.
Noi non siamo così, noi non vogliamo questo.
Noi vogliamo aiutare i ragazzi a diventare atleti migliori, vogliamo che si divertano in campo, vogliamo che si responsabilizzino.
Vogliamo che crescano.
Ed allora noi abbiamo deciso di creare le nostre squadre raggruppando gli atleti a seconda della loro bravura.
Della funzionalità.
Se in una scala che va da zero a cinque tu a giocare con il pallone sei bravo quattro allora condividerai il campo con un gruppo di uomini dove tutti saranno più o meno bravi quattro.
Così puoi crescere, così impari a prenderti responsabilità per te stesso e per gli altri e così, dato non secondario, riesci anche a divertirti.
Per cui Omar è stato assegnato ad uno gruppo specifico secondo questo principio, questo sì di vera inclusività, e si è presentato al campo per sostenere il suo primo allenamento.
Con il suo incedere insicuro e po' malfermo ha raggiunto gli altri, con quel misto di timore e curiosità che ci prende tutti quanti alla pancia quando ci si presenta ad una compagnia nuova.
Di quel gruppo Omar era il solo ad avere una disabilità fisica.
Ognuno degli altri componenti della squadra invece aveva una disabilità mentale.
Cosa può passare nella testa di un ragazzo, un ragazzo che sente i propri pensieri viaggiare veloci nella testa anche se le gambe sono lente nel renderli atti, quando si trova inserito in un gruppo di atleti che invece corrono, anche molto forte, pur avendo altre, evidenti, problematiche?
Qual è la distanza maggiore che finirà col percepire?
Quella tra le sue gambe e gli scatti degli altri?
O quella tra il suo pensiero e l'altrui pensiero?
Come reagirà il suo stomaco: si sentirà isolato perché fatica a muoversi o faticherà ad integrarsi perché sentirà la frustrazione di avere una mente più scattante degli altri?
Ricordo il primo allenamento.
Poco dopo il riscaldamento c'era la fase dello strecthing che per lui è un'operazione delicata e necessita di assistenza costante per essere completata.
Deve potersi appoggiare, sostenere su qualcuno.
Deve poter lasciare le sue gambe alle cura di mani amiche, oppure non ci riesce.
Ed io rammento i suoi occhi quasi chiedere scusa di quella richiesta d'aiuto perché sentiva che, facendosi supportare così, avrebbe sottratto agli altri un assistente cui rivolgersi durante l'allungamento, per quanto brevemente.
Aveva già mostrato immediato, enorme altruismo.
Omar è un leader nato.
La sua umanità ha preso il sopravvento dal primo minuto che ha condiviso con i suoi nuovi compagni ed insieme a loro ha lavorato per migliorarsi.
Inizialmente in campo la sua presenza per la squadra era un deficit tecnico importante, mentre fuori era un sostegno prezioso per tutti.
I ragazzi intorno a lui hanno dovuto imparare a passargli il pallone tra i piedi, con grande precisione.
Perché se il passaggio non è millimetrico Omar non riesce a stoppare la palla ed a giocare con gli altri.
Poco più avanti o indietro rispetto a dove si trova e il pallone rotola via.
Ma se invece la biglia arriva puntuale e con i giri giusti allora lui la sa trasformare in oro, perché ha una visione di gioco che gli altri suoi compagni non hanno.
È diventato un esempio per chiunque.
Un punto di riferimento a cui ognuno dei compagni chiede consigli, tutti gli affidano paure e riflessioni.
E l'umiltà con la quale lui si rende disponibile ad aiutarli è la stessa che mostra quando deve lavorare sulla propria disabilità, grazie al lavoro di squadra..
In fin dei conti, ciò che il nostro organizzatissimo staff può o non può fare è determinato da una sola cosa: la ricettività dei ragazzi.
Da loro.
Ciò che facciamo noi dipende unicamente da loro.
Certo abbiamo metodo.
Ci sono tabelle, modelli, ogni cosa è studiata nel minimo dettaglio.
Ma vedere se tutto questo diventa carta senz'anima o diventa una crescita reale, beh quello dipende da loro.
Dalla loro forza.
Per poter oggi raccontare, descrivere questo tipo di risultati abbiamo deciso di intraprendere questo percorso.
Abbiamo deciso di spezzare il circolo del pietismo.
O quantomeno di provarci.
Nel nostro primo anno di attività abbiamo iniziato la stagione con quattro calciatori.
Quattro.
Non quarantaquattro, non quattrocento, ma quattro.
E ci andava bene così.
Inaspettatamente le principali difficoltà a farci capire le abbiamo riscontrate nel dialogo con coloro che avevano davvero a cuore i ragazzi con disabilità.
Con i maestri, i professori, con le realtà del terzo settore.
A farli giocare solo tra loro li ghettizzate!
Questa era la convinzione di chi interpellavamo all'inizio.
Ma se ad un ragazzo disabile si fa vestire la maglia numero 10 e gli si regala solo qualche minuto in campo, lo si sta aiutando?
Se quando scende in campo gli altri 21 si fermano, e gli fanno fare un gol a porta vuota, o non lo attaccano quand'è in difesa per non esporlo all'imbarazzo, lo si sta integrando o sta sottolineando la sua diversità?
Lo scopo può anche essere nobile ovviamente.
Ma come si comporterà il ragazzo con il dieci sulle spalle quando arriverà dal fornaio citato all'inizio?
Salterà la fila.
E la gente lo accetterà e gli darà una pietosa pacca sulla spalla.
Che lo aiuterà e riscalderà solo per il tempo necessario a pagare ed uscire dal negozio.
Il nostro sogno, che oggi è la nostra realtà, è sempre stato quello di formare atleti, giocatori.
Di inserirli in contesti competitivi a seconda delle loro qualità.
Per dar loro il modo di imparare a prendersi le proprie responsabilità, di sbagliare e di rammaricarsene.
Perché un errore anche se non è un problema resta un errore.
Se tutto quello che puoi fare quando vai a giocare è un gol a porta vuota con gli avversari che ti guardano a braccia conserte, allora tutto ciò che saprai fare in futuro è un gol a porta vuota con gli avversari che ti guardano a braccia conserte.
Fino al giorno in cui questo non ti basterà più, che di solito arriva anche piuttosto presto.
E questo vale in ogni aspetto della loro vita dentro e fuori dal campo.
Lavorare con metodo, dividendo le aree di competenza distrugge la retorica del pietismo, la frantuma, regalando loro strumenti nuovi ed affilati, qualità e rinnovate certezze.
A loro, che sono da sempre senza filtri, permetti di svilupparne qualcuno, restando comunque fedeli a sé stessi.
Sempre.
Il loro carattere emerge.
Sono semplici ragazzi, alcuni ombrosi, altri intelligenti e sagaci.
Non sono in grado di farsi condizionare dal contorno.
Tutto per loro è semplicemente: "il mondo esterno" ed in quanto tale merita una sincera interazione che possa mettere in mostra la loro anima.
Ciò che più ci preme fare è offrir loro l'occasione di mostrarla, quell'anima, così com'è, a tutte le persone che fanno parte della loro quotidianità, della loro vita.