In casa, fin da subito, si sono formati due partiti.
Da un lato c’era quello capitanato da papà, che aveva lo sport come stella polare, mentre l’altro, facente capo a mamma, che di mestiere fa la professoressa di italiano e latino, considerava lo studio sopra ogni cosa.
In realtà, ad essere sincero, le due fazioni non sono mai state davvero rivali, perché i miei genitori hanno sempre riconosciuto l’importanza di entrambe le cose e spronato me e mia sorella gemella Elena a fare moltissime ore di sport e a studiare almeno altrettanto.
Io sono nato a Milano, più o meno per un caso: mio nonno ha sempre viaggiato molto per lavoro e i miei genitori erano in visita lì quando sono venuto al Mondo, ma dopo soli due giorni ero già a Imperia. Per questo mi considero un imperese DOC. Questa città mi ha visto crescere, mi ha formato sia sportivamente che umanamente e, infatti, qui mantengo ancora molti rapporti importanti che cerco sempre di coltivare, anche ora che vivo e mi alleno a Rieti.
Da bambino ero tendenzialmente iperattivo, non riuscivo proprio a stare fermo e lo sport è stata la naturale valvola di sfogo per il mio temperamento e per la mia indole. Li ho provati praticamente tutti, grazie a mio padre. Lui non è mai stato un professionista eppure ha sempre avuto chiaro in mente l’enorme potere formativo dello sport e ha fatto tutto il possibile per trasmettere la sua passione a me e a Elena.
Basket, calcio, equitazione, volley, ma anche schiaccia-sette giocato per le strade di Imperia, papà diceva sempre:
l’importante è che sia sport!
In fondo quando sei piccolino è difficile prevedere cosa ti piacerà fare quando diventerai grande, o per quale attività sei più portato: avere avuto l’occasione di sperimentarne così tante è stato senza dubbio un privilegio.
Tra tutti gli sport, comunque, papà aveva un debole per lo sci, e questa è una storia d’amore che abbiamo ereditato anch’io e mia sorella. Ho passato ore sulla neve, ottenendo anche buoni risultati prima di iniziare a dedicarmi completamente all’atletica.
Posso dire di avere un vero e proprio debito con lo sport, perché mi ha insegnato dei valori fondamentali, che mi accompagnano ancora oggi.
La resilienza, certo.
L’importanza del sacrificio, ovviamente.
Più di ogni altra cosa, però, lo sport mi ha insegnato a rispettare gli altri.
Perché quando inizi a competere ti rendi conto che chi condivide i tuoi stessi dolori e le tue stesse fatiche è più capace di altri a provare empatia con te. Impari che in ogni gara può esserci un solo vincitore, ma tutti i partenti hanno fatto una tonnellata di sacrifici per arrivare preparati. Almeno quanti ne ha fatti chi arriva primo e questo va sempre ricordato. Impari, con lo sport, ad essere aggressivo pur mantenendo intatto il rispetto per chi ti parte a fianco e cerca di arrivare in fondo prima di te, perché tu conosci perfettamente la mole di lavoro che anche lui ha dovuto fare per arrivare fino a lì. È davvero formativo.
A completare la mia formazione ha concorso, e molto, anche lo studio. Per la gioia di mamma ho sempre fatto del mio meglio per mantenere lo stesso livello di attenzione e di riuscita che avevo nello sport anche tra i banchi di scuola. A volte i compagni mi chiamavano, scherzosamente, il secchione della classe e molto spesso finivamo a casa mia per studiare tutti insieme.
All’inizio l’influenza di mamma si faceva sentire e preferivo le materie umanistiche, ma nel corso del tempo ho iniziato sempre di più ad apprezzare invece quelle scientifiche e ad oggi, infatti, sono regolarmente iscritto a medicina. Devo ammettere che ora gli impegni sportivi mi impediscono di tenere i ritmi accademici migliori, ma mi sto impegnando lo stesso per mantenere sempre vivi i contatti con il mondo universitario, in modo che, quando riprenderò a pieno regime, non sarà come partire da zero.
Le due realtà, scuola e sport, hanno anche avuto modo, negli anni dell’adolescenza, di congiungersi completamente: dalla seconda superiore mi sono trasferito allo Ski College di Limone, un liceo delle scienze sociali a indirizzo sportivo, studiato apposta per incentivare la doppia carriera. E lì ho potuto focalizzarmi sullo sci durante l’inverno e sull’atletica in estate. Ero, devo ammettere, anche piuttosto portato per entrambe le discipline. Ricordo quando, a 15 anni, in aprile vinsi il Trofeo Topolino di slalom e poi, pochi mesi dopo, a ottobre, vinsi i Criterium cadetti sui 300 metri con quello che allora era il primato italiano. Primato che, tra l’altro, mi è stato tolto di recente da Lorenzo Benatti e sono davvero felice che sia andata così.
Lo sci e i 400 metri sono due sport simili e non soltanto per la durata, visto che una manche di slalom dura più o meno quanto un giro di pista, ma anche perché entrambi richiedono una grande forza esplosiva e un rapporto intimo con il concetto di velocità. Che sia la forza di gravità che ti attrae verso il basso o quella delle tue gambe che ti spinge in avanti è sempre bellissimo sentire il vento in faccia mentre corri. È adrenalinico.
Comunque, per quanto si possa essere innamorati della velocità in tutte le sue forme, arriva necessariamente il momento in cui ti rendi conto che se uno sport ti piace veramente, per farlo al massimo livello possibile, devi diventare bravo. Molto bravo. Lo sport, crescendo, mette in stand by per un istante tutto il suo carico formativo e inizia a tendere maggiormente verso un approccio competitivo e professionistico, ma non è detto che questa maggiore attenzione alla performance e al risultato non diventi anch'essa motivo di crescita e scoperta personale.
La costruzione di un quattrocentista di altissimo livello è abbastanza complicata, perché deve trovare il modo di mettere insieme velocità e resistenza. Per questo serve imparare alla perfezione la tecnica di base, la cui importanza va ben oltre quello che un primo sguardo, pigro, lascerebbe supporre.
Si è istintivamente portati a pensare che per correre veloci o per saltare in alto basti una prepotente forza muscolare, ma non è affatto così. Esistono molti dettagli tecnici da curare per costruire una corsa che sia il perfetto connubio tra potenza ed efficacia e in questi processi di crescita, che si limano un centimetro alla volta, tutto conta. La posizione del piede rispetto al resto della gamba, il suo tempo di risposta a terra, la postura delle braccia in relazione all’ampiezza della falcata…insomma: per arrivare a performare al meglio bisogna essere dei veri e propri studenti della materia, sempre pronti a migliorare i dettagli e a mettere in discussione le vecchie certezze. Distruggerle, per poi costruirne di nuove, più forti, perché è proprio alle sicurezze personali che un quattrocentista si appella durante la propria gara in pista. Bisogna arrivare ad avere un cronometro in testa, per riuscire a modulare lo sforzo su tutto il giro; un lavoro continuo, alla ricerca dell’eccellenza, che a volte può conoscere delle battute d’arresto e altre volte, invece, vive di sorprendenti e felici balzi in avanti.
Balzi in avanti come la mia rincorsa al record italiano.
Quando mi sono spostato a Rieti, puntavo a diventare un buon atleta, solido, pronto per competere nei meeting europei e capace di dare una mano alle staffette azzurre. Mai avrei pensato di poter fare un primato nazionale, ma, con il passare del tempo, io, la mia allenatrice, la mia famiglia e la mia manager siamo arrivati a maturare la convinzione che forse avrei potuto davvero attaccarlo.
In fondo bisogna anche imparare a sognare in grande qualche volta, altrimenti lontano non ci arrivi mai.
Così, nel 2018, abbiamo impostato un periodo lungo per pianificare la ricerca della gara perfetta, nel tentativo di graffiare le superfici dei miei limiti e di provare ad prendere il record di Matteo Galvan, che è, tra l’altro, mio compagno di allenamenti.
Puntare a un obiettivo grosso significa anche prepararsi alle difficoltà che possono capitare e alle gestione delle aspettative che si ripongono in sé stessi: perché quando capita di disattenderle è dura rimettersi in carreggiata. Forse, anche per queste ragioni, a volte succede di non riuscire a raccogliere quello che desideri nel momento pianificato e poi finisci con il ritrovartelo in mano, scintillante, quando meno te lo aspetti.
È quello che è successo a me a Ginevra, nel giugno dell’anno scorso.
Era già da qualche gara che non riuscivo ad avvicinarmi al record, per cui in quel meeting mi ero prefissato di concentrarmi solo sul 45 e 30 necessario per qualificarmi ai Mondiali di Doha. Quando ho passato il traguardo e visto 45 e 01 ero tanto felice quanto sorpreso. Il primato, poi, sono anche riuscito a migliorarlo, poco dopo, a Le Chaux de Fonds, fermando il cronometro a 44 e 77. Una prestazione magnifica che ho quasi replicato ai Mondiali di Doha, dove sono riuscito ad entrare nella top ten terminando una gara dal valore assoluto certamente paragonabile a quella del record.
La kermesse iridata mi ha fatto toccare con mano cosa significhi entrare nell’elitè mondiale di una specialità, dandomi una dimensione tecnica che all’inizio del mio percorso non avevo neppure il coraggio di sognare. Ma è proprio quando ti accorgi che i tuoi sogni si stanno lentamente trasformando in degli obiettivi che capisci quanto di buono sei riuscito a fare. E questo, di solito, è ulteriore carburante per cercare di fare ancora meglio. Perché la mia vita e la mia carriera sono costellate di momenti del genere, nei quali il piacere di qualcosa di raggiunto si mescola immediatamente con il sapore di un nuovo traguardo da andarmi a prendere. Credo che sia la forma mentis di tutti gli sportivi determinati.
E il prossimo sogno che, dopo aver reso un obiettivo, voglio anche trasformare in realtà è la finale olimpica, l’anno prossimo a Tokyo 2021. Non sarà semplice perché non sono di certo il solo ad aver cerchiato sul calendario il giorno in cui è prevista in programma. Il mio primo ricordo olimpico è quello di Baldini ad Atene 2004 ed è guardando lui trionfare che ho capito che quello a cinque cerchi è il palcoscenico più bello di tutti e se nella vita vuoi fare l’atleta è a quello che devi ambire.
Ora, l’Olimpiade della mia generazione è dietro l’angolo e servirà farsi trovare pronti per meritarla, ma sono certo che questa sia proprio una di quelle volte di cui sopra, quelle per cui val la pena sognare davvero in grande.