Dorothea Wierer

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Io sono quella di mezzo, quella sempre in cerca di qualcosa, che l’equilibrio lo costruisce sull’instabilità delle cose che ha dentro.

Sull’instabilità dei propri pezzi.

Terza di cinque fratelli, non sono stata né la prima né l’ultima a trovare nello sport un motivo d’essere, una ragione.

Ma sono stata comunque la migliore, quella più fortunata.

Quella più brava.

Oltre gli eccessi degli uni, e prima della fatica degli altri.

Giusto nel mezzo, precisa-precisa.

Dal 1984 al 2001: queste sono le nostre date di nascita, e al centro, sempre lì, tanti anni sono passati e tante cose sono successe.

Diciotto anni tra un figlio e l’altro: lo spazio di un caffè, che persino il tempo che è passato è già maggiorenne.

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Cinque figli, cinque.

Sono tanti da gestire, soprattutto per la mamma, che doveva badare a noi tutto il giorno, quando il papà era fuori a lavorare. Lui, di mestiere, fa il cuoco.

Io, quando ero piccola, trascorrevo i miei pomeriggi nei prati da sola, a giocare, a prendere a calci un pallone, preoccupata di ascoltare soltanto me stessa.

Ero una testona.

E forse lo sono ancora.

Ad essere onesti, a noi fratelli, lo sport non è che ci interessasse poi così tanto.

Ci piaceva, era parte della nostra vita, ma non era il centro dei nostri pensieri.

I più grandi, Robert e Carolina, avevano entrambi scelto il biathlon, ed erano anche piuttosto forti, ma quando sono diventati grandi abbastanza per scegliere da soli della propria vita, hanno preferito smettere.

Quasi come è successo a me.

Quasi.

A loro piaceva di più il tempo passato con gli amici che quello trascorso ad allenarsi.

Quasi come è successo a me.

Anche qui, quasi.

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Quasi dieci anni più tardi, pure la più piccola tra noi, Magdalena, nata nel Millennio nuovo, si è cimentata con gli sci e con il fucile, ma avevano tutti l’abitudine a confrontarla troppo spesso con me.

Come se fosse una mia versione più giovane.

E forse per questo non la sentiva una cosa sua fino in fondo.

Il modo di vivere la neve di ognuno di noi è rimasto parte del nostro essere, parte del nostro carattere, e ancora oggi che siamo adulti, quando ci ritroviamo sotto lo stesso tetto o seduti alla stessa tavola, il passato emerge.

Nelle sue forme e nelle sue essenze.

Lo spirito casinista, la capacità di vivere la casa come uno spogliatoio, come una squadra. Il segreto che condividiamo delle verdure dell’orto e della caccagione di papà.

In anni passati a girare il mondo, non ho mai trovato cibo più buono, più saporito e dai colori più accesi di quello che si trova sui piatti di casa.

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Da quella casa, io, me ne sono andata a 14 anni, ma senza mai andarmene veramente, perché il filo che mi lega alla mia terra più si fa lungo e più diventa spesso.

Resistente.

Impossibile da rompere.

Così, poco alla volta, io sono diventata la mia terra, le mie origini.

Un prodotto del mio passato.

La scuola sportiva di Malles è stata la mia fortuna, sportivamente parlando, perché studiare mi piaceva poco, quasi quanto poco mi piaceva allenarmi, e se non fossi stata circondata da altri ragazzi con il mio stesso background e le mie stesse ambizioni, probabilmente avrei lasciato il biathlon molto presto.

Ricordo che una volta, alle medie, non mi presentai agli allenamenti per oltre un mese, nel cuore della stagione, e l’allenatore dovette chiamare i miei genitori per chiedere se per caso avevo deciso di smettere di sciare.

Quell’insofferenza alla disciplina me la sono portata dietro anche nell’adolescenza, perché dei miei amici d’infanzia nessuno faceva sport, e il tempo trascorso in pista mi sembrava tempo rubato a me, a Dorothea, e alle cose di cui avevo bisogno.

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Poi scopri che il collegio è pieno di altri come te, gente che arriva da tutto il mondo, e che in ognuno di loro la motivazione è diversa.

C’è chi ha sempre sognato di essere un grande atleta.

Chi vuole diventarlo per un riscatto personale.

Chi è lì quasi contro-voglia, chi grazie ai sacrifici di un’intera famiglia.

Chi, come me, ha il dono di saperlo fare, e deve combattere quotidianamente con la necessità di doverlo, o di non doverlo, fare.

A volte avevo voglia.

Altre invece no.

Mi è sempre mancata la sacralità dello sport, il sentirlo più importante di tutto il resto. Anche perché, sotto-sotto, non credo che lo sia.

E questo è anche ciò che lo rende bello.

Lo sport è bello proprio perché non è necessario, ma è una scelta.

Ed è una scelta che ti chiede di essere validata sempre, giorno dopo giorno, esponendo a tutti quanti gli aspetti più intimi del tuo carattere.

Le bugie puoi dirle solo fino alla partenza. Dopo no.

Così, per esempio, ho scoperto di essere ansiosa, nello sport.

Ho scoperto che per arrivare in alto dovevo imparare a convivere con la paura di fallire. Dovevo sentirmela addosso.

Ancora oggi mi vedo sempre peggio di quello che sono in realtà, e non esistono dati scientifici o parole di conforto in grado di farmi cambiare idea.

Se non il risultato della gara.

E anche in quella, il mio cervello cerca il pelo nell’uovo, il motivo di insoddisfazione, la ragione per volersi mettere in discussione, ancora e ancora.

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È un peso, e devo ringraziare l’altra metà di me se sto durando così a lungo ad alto livello. La metà che sa fare switch quando la gara finisce.

Quella che si arrabbia per la prestazione e si incazza con le critiche ingiuste, ma che sa anche quando spegnere l’interruttore e rimettere l’agonismo al posto che gli compete.

Dietro al resto.

Sono sempre affammata, ma nulla mi ossessiona.

E in questo equilibrio sottile non si nasconde soltanto la mia felicità, ma anche il segreto del successo, perché sono tanti gli atleti che ho visto perdersi proprio perché fissati su una cosa soltanto.

Quel desiderio diventa un virus, che genera l’effetto contrario, rovinando i rapporti professionali e, se non stai attenta, anche quelli personali.

È così che mi sono ritrovata in uno spazio mio, con delle regole che funzionano solo e soltanto per me.

Ci convivono quella parte che vorrebbe già aver smesso, per dedicarsi ad una carriera nuova, a formare una famiglia e a passare il tempo con mio marito. E la parte di me che invece si sente ancora forte, vigorosa, con il vuoto alla bocca dello stomaco, alla partenza di una gara.

Ci convivono l’atleta a cui piacerebbe avere più giorni liberi, e la donna di Mondo, perfettamente consapevole che gli impegni con gli sponsor, gli shooting e con la stampa sono parte integrante del sistema in cui vive.

Un sistema che le ha dato fortuna, soldi, opportunità.

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È tutto parte dello stesso pensiero, composto in egual misura di vanità e orgoglio, di talento e di fatica.

Convivono in me tutti i pettorali della mia vita.

Tutte le avversarie che rispetto.

Tutte quelle che goduto particolarmente a battere.

Tutte quelle che chiacchierano troppo.

Tutti i tecnici arrivati e andati via.

Tutte le medaglie e tutti i titoli di giornale che mi davano per finita.

Tutti le amicizie perse e tutte quelle nuove.

Convivono in me tutte le persone che amo.

Tutte le sfumature di quel che sono stata e di quel che sarò.

Tutti i sogni di gloria della mia sorellina più piccola.

E tutta la spensieratezza di quelli più grandi.

Tutti i calci che ho dato a un pallone e tutte le verdure dell’orto di casa.

Convivono in me, alla fine, anche tutto il presente. Tutto il passato. E tutto il futuro.

Tutte le fotografie, tutte le sedute in palestra, e tutte le cene di classe mancate.

Tutte le insicurezze e tutte le copertine.

Tutte le Olimpiadi di ieri e persino la prossima.

Una, nessuna, e Dorothea, quella di mezzo.

Dorothea Wierer / Contributor

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