Il mio nome è Dut Biar Andrea Mabor e sono nato in Sudan pochi giorni prima del Natale del 2001.
La mia famiglia viveva a Khartoum ed è di origine araba.
La mia terra di origine ha vissuto degli anni molto difficili che hanno messo a dura prova tutta la mia gente.
Tanti di noi siono stati costretti a spostarsi, a cambiare o a fuggire per cercare un futuro migliore. O un futuro più pacifico.
Io ho vissuto in Sudan con mia madre ed i miei tre fratelli fino al 2010, quando avevo soltanto 9 anni.
Vivere con loro era semplicemente bello.
La vita di un bambino: i giochi e i pasti, la scuola e lo sport.
Mi divertivo.
Mi sentivo protetto.
Mi ricordo quanto era bello mangiare a tavola tutti insieme.
Mi piacevano il riso, la pasta ed il pollo più di ogni altra cosa.
Era tutto normale: giocavo, studiavo e mangiavo.
Sempre con i miei fratelli, che erano la mia famiglia, la mia gang e la mia felicità.
Nel 2010 però mi sono dovuto trasferire in Sud Sudan per vivere a casa di mia zia, insieme ad uno dei miei fratelli mentre gli altri sono rimasti in Sudan.
Non è stato per niente facile doverci dividere, era un pezzo di me che mi veniva strappato via.
Ma era necessario farlo.
E lì, in Sud Sudan, purtroppo le cose sono cambiate molto velocemente.
In pochi anni tutto ciò che mi circondava si è trasformato in qualcosa di pericoloso e difficile da comprendere, da accettare.
È scoppiata la guerra.
Non lontana: nei telegiornali.
Ma vicina: nelle strade.
Sui marciapiedi e nelle scuole.
E io non la capivo fino in fondo ma percepivo che quello che c’era intorno era diverso.
Molto diverso.
Diverso in peggio.
Era il 2013, io avevo 12 anni e il mio quartiere si era improvvisamente riempito con soldati armati di pistole che camminavano per le strade a qualunque ora.
Non erano solo i soldati a portarsi le armi addosso per le vie della città ed a sparare al minimo pretesto: lo faceva chiunque.
Uscire di casa diventava ogni giorno più pericoloso.
A me piaceva la mia vita prima della guerra.
Amavo stare in famiglia, uscire a giocare.
Di colpo nulla di tutto questo era più reale. Tutto sparito in un attimo.
C’erano solo la paura, le privazioni ed il rumore degli spari in lontananza.
Un giorno, quando il rischio ormai era diventato troppo grande, sono scappato da casa della zia e mi sono rifugiato dallo zio, il fratello di mio padre.
Padre che poi, fortunatamente, è riuscito a raggiungerci.
Da quel giorno nulla è stato più come prima.
Non potevo più andare a scuola.
Non potevo più uscire di casa.
Non sapevo neppure più cosa potevo sognare per il mio futuro, come fa ogni bambino, perché la mia unica preoccupazione la sera era pregare che ogni componente della mia famiglia fosse tornato nel proprio letto.
Non potevo più giocare con gli altri ragazzi.
Al massimo riuscivamo a fare due lanci a football nel cortile di casa, al riparo da sguardi minacciosi, ma anche lontani dai miei amici.
Poi nel 2016 ho scoperto il basket.
C’era un piccolo campetto all’aperto.
La zona era pericolosa sì, ma non troppo e riuscivo ogni tanto ad andare a farci due tiri.
Soprattutto nei giorni più calmi e sereni, quelli in cui non si sentivano troppi spari.
Mi sono appassionato ed ho iniziato ad allenarmi al massimo delle mie capacità e della mia resistenza.
Stare in campo era una liberazione.
Era come mettere dentro il ghiaccio il resto del Mondo e vedere solo la palla muoversi ed infilarsi nel canestro mentre tutto era immobile.
Guerra compresa.
8 mesi fa mio zio è riuscito a mettermi su un aereo ed a venire con me fino a Roma, dall’altra parte del Mondo.
Adesso vivo nella foresteria della Stella Azzurra fianco a fianco con altri ragazzi che vengono da ogni angolo del pianeta, ognuno con la sua storia di fortuna o di sfortuna.
Ma in campo siamo tutti uguali: fratelli, non di sangue ma fratelli.
Vado a scuola e sono felice di poter studiare ma niente sinceramente batte la gioia del pallone e del campo.
A qualunque ora, con qualunque compagno: il basket è libertà e divertimento.
Sogno di diventare un professionista e di giocare nella NBA un giorno e ce la metterò tutta per arrivarci, davvero.
Sento che nulla potrà fermarmi.
Non perché sono più bravo degli altri ma perché sono quello che si allena divertendosi più di tutti quanti.
Spengo il cervello e gioco.
Gioco e mi sento vivo.
Cerco di limare i miei errori e difetti, ma anche quando sbaglio lo faccio con il sorriso.
Quando chiudo gli occhi mi manca casa e mi manca la mia famiglia, stare insieme a loro era la cosa più bella di tutte quand’ero un bambino.
Quando penso a cosa vorrei per il futuro il mio primo pensiero vola alla mia terra: vorrei che la guerra finisse e che tutti si sentissero liberi di andare a scuola o ai campi per giocare a quello che gli piace di più.
Ma oggi riesco anche a sognare cose per me stesso, per il mio futuro e questo è un dono che mi hanno fatto lo sport e la forte tenacia della mia famiglia.
La pace non è una cosa scontata, non per tutti almeno.
E credo che sia importante ricordarselo, soprattutto nei giorni in cui si può stare di più con i propri cari.
Per questo il mio pensiero in queste vacanze va anche a coloro che non possono stare tutti i giorni vicino alla propria famiglia.
Fatelo il più possibile quando potete.
Perché non è mai abbastanza.