Earvin Ngapeth

10 MIN

Quello che penso, di solito, lo dico, anche perché non riuscirei a fare diversamente.

Io sono fatto così.

Le notizie che arrivano sulle prime pagine dei giornali non sono altro che un pezzo della verità, non la verità intera. Ci sono tanti modi di raccontare una storia, e ognuno di essi svela di più di colui che la scrive che non della storia stessa.

Si può iniziare, per esempio, dal momento più elegante, quello prestigioso, che come una foto sa descrivere la grandezza del tutto in uno spazio molto piccolo.

Alle Olimpiadi di Tokyo 2020 le squadre francesi hanno fatto piazza pulita di medaglie, e gli ultimi giorni prima della Cerimonia di chiusura sono stati una marcia trionfale. Basket, pallamano, volley: ovunque ti giravi vedevi spuntare la mia bandiera.
Allora potrei partire da qui, da quando mi sono ritrovato a camminare fianco a fianco con Nicolas Batum, con Rudy Gobert e Luka Karabatic, tutti per uno e uno per tutti, con l’argenteria pesante ben salda intorno al collo. In quel momento lì ho capito che qualcosa era cambiato, ho capito che eravamo diventati i campioni olimpici, e che nessuno potrà mai privarci di quello che abbiamo fatto.

 

Che poi si potrebbe anche raccontare della festa che ci hanno organizzato una volta rientrati in patria, con la parata ai piedi della Tour Eiffel.

Un giorno di tale magia, un regalo talmente bello da sembrare di vivere in un film.

Come se a Parigi, all’alba, fosse tornato il Re Sole.

 

Conta tanto. L’amore della gente conta tanto.

E se volessi potrei anche limitarmi a questo, che in fin dei conti è la cosa più importante che ci sia, per chi vive di sport. Dentro ad ogni storia che si rispetti, però, non può essere tutto rose e fiori, ci deve essere anche un po’ di tragedia, altrimenti lo spettatore si annoia subito e cambia canale. Allora vi racconto del balcone.

Siamo arrivati a Tokyo convinti di essere forti, e pronti a fare bene. Molto bene.

Ma pensarlo non basta di certo.

La prima partita del girone l’abbiamo persa per 3 a 0 contro gli Stati Uniti, scendendo in campo completamente privi di battito, piatti come mai ci era capitato. Noi siamo da sempre una squadra strana, e sono le nostre emozioni a nutrire la qualità del gioco, e non viceversa. Se lo spirito è cupo, la nostra pallavolo si spegne, e diventiamo tristi.

Il problema non è stato neppure il risultato, ma l’impotenza che abbiamo provato nel perdere una partita in poco più di un’ora. Alle Olimpiadi!

Così arriva il giorno in cui giochiamo di nuovo, e già c’è un idea fastidiosa che si inizia ad annusare nell’aria. Non è colpa di nessuno, sia chiaro, o almeno di nessuno in particolare.

Ma perdi la prima, e alle porte della seconda ti senti già con un piede nella fossa.

Piede che poi, battuti dall’Argentina, abbiamo affondato per intero, impantanandoci per bene. Quella notte, con la testa piena di brutti pensieri e di cattivi ricordi, ci siamo ritrovati tutti sul balcone, nella nostra palazzina all’interno del Villaggio.

E abbiamo parlato.

Per ore e ore, abbiamo parlato.

Nel caldo umido di Tokyo, abbiamo parlato.

Finché non ne siamo usciti con la promessa che saremmo andati lontano.

Tu lo prometti a me, e io lo prometto a te.

La storia del nostro oro, quindi, può iniziare anche nel cuore della notte.

Earvin Ngapeth

© ModenaVolley

Per essere del tutto sinceri, però, bisognerebbe fare un passo indietro di qualche anno, per capire perché una simile promessa potesse avere una tale importanza per ognuno di noi.

Ai Giochi di Rio, la nostra spedizione era stata un completo disastro.

Come Napoleone a Waterloo: all’inizio ci sembrava anche di poter raddrizzare le cose, poi siamo stati spazzati via, senza colpo ferire.

Fuori nel girone di qualificazione.
Fuori subito.

Fuori anche se eravamo sicuri che, una medaglia, l’avremmo riportata in Francia.

Perdere brucia, chiunque abbia fatto sport sa di cosa sto parlando. Non è soltanto il dispiacere per l’occasione mancata, non è rammarico, non è tristezza.

È un vero e proprio dolore, come un’ustione che vorresti grattare, ma non puoi.

Si dice che la sconfitta sia il primo mattone per costruire una vittoria nuova, e non sarò io a sostenere il contrario, ma l’equazione funziona solo se, quando perdi, hai la forza di memorizzare quel dolore, di stampartelo in testa. Per tirarlo fuori quando sei con le spalle al muro.

Avere voglia di vincere significa soltanto avere chiaro in mente il sapore della sconfitta.

Chiaro a sufficienza da non volerlo più.

Davvero. Ogni volta che ripenso ai Giochi di Tokyo, mi vien voglia di raccontare una cosa diversa. Perché è certo che volessimo rifarci della delusione di cinque anni prima, ed è sempre certo che senza la nostra nottata passata sul balcone oggi non potrei raccontare questa storia, ma le partite poi vanno vinte per davvero, e il gioco, con tutte le sue sfumature e le sue tattiche, è pur sempre il protagonista principale.

La verità è che non avremmo mai vinto l’oro olimpico senza battere la Polonia ai quarti, e nel racconto di quella sfida si racchiude tutta la narrativa dello sport, che è un po’ psicologia e un po’ anatomia, mescolate insieme.

Noi eravamo letteralmente sopravvissuti ad un inizio da incubo, rimettendo in piedi il girone grazie a qualche vittoria pesante. Passavamo da quarti, che bastava a farci sentire dei miracolati, ma ci obbligava anche al peggior incrocio possibile.

Prima dell’inizio del torneo eravamo certi di poter arrivare fino in fondo, soprattutto se fossimo riusciti a vincere la nostra Pool. Essere gli ultimi tra le qualificate, invece, ci ha portato in dote la Polonia, super favorita della vigilia, e squadra più forte in assoluto.

Poi è avvenuta la magia.
La pressione si attacca alla palla: per prima batte sempre la squadra favorita, e puoi star certo che proveranno a fare un ace. Ma se tu, per caso, quella palla lì, riesci a difenderla e a ributtarla di là, la pressione le va appresso, raddoppiando di peso.

Ogni volta che la palla passa la rete si fa più rigida e pesante, fino a che non diventa di porcellana e qualcuno la rompe.

La leggerezza era tutta nostra, la paura di perdere tutta loro.

Abbiamo visto il dubbio materializzarsi nella loro testa, e quando siamo arrivati al tie break la differenza di energia tra le squadre in campo è diventata chiara. Con la nostra panchina che saltava ad ogni punto, e i sorrisi stampati in faccia come se fossimo dei bambini alla vigilia di Natale, abbiamo dominato l’ultimo set e iniziato a capire che cosa avremmo potuto raggiungere.

Earvin Ngapeth

© ModenaVolley

Viene anche il momento della finale, poi, e quello merita una storia ancora nuova. Dopo aver battuto l’Argentina, vendicando la sconfitta nel girone, quella del balcone, avremmo avuto soltanto 48 ore di tempo per preparare la sfida contro i russi, ultimo ostacolo per l’oro.

La cosa più difficile, arrivati a quel punto non è stata la tattica, non la fatica, non gli infortuni. La cosa più difficile è stato dormire.

Vagavamo per le stanze, gonfi di adrenalina, completamente incapaci di chiudere occhio.

La prima notte non dormi per la partita che hai alle spalle e le emozioni che ti ha dato.

La seconda notte non dormi per la partita che hai davanti, che sarà la cosa più importante che potresti mai sperare di vivere con la maglia della nazionale addosso.

Bussavamo alla porta dei compagni: “cazzo siamo in finale!”.

Si ma proviamo a dormire”.

Senza il sonno, vai avanti grazie alle energie nervose, grazie ai pensieri positivi, grazie ai messaggi delle persone lontane, che volano attraverso l’Oceano e entrano in un Villaggio blindato e senza spettatori, che si faceva più silenzioso ogni giorno, man mano che i Giochi finivano e la gente se tornava a casa.

Dal campo allo spogliatoio, dell’ultimo tunnel non ricordo granché, come non ricordo quasi nulla degli ultimi giorni in generale, schiacciati tra immagini di festa e azioni di gioco confuse. So per certo che siamo riusciti a lasciare tutto quello che non serviva dietro la porta della spogliatoio, prima della finale, entrando in campo svuotati di tutto il superfluo.

Di quegli ultimi 5 set, ho ben chiaro il ricordo del dolore fisico, dei crampi, dei muscoli che diventano duri e del grammo finale di energia, che ho trovato in fondo al mio corpo quando è iniziato il tie break.


Cuore, dramma, rivincita e gioco: le storie dentro la storia valgono tutte alla stessa maniera, e messe insieme con arte diventano il mosaico di un viaggio indimenticabile. Più passano i giorni, però, e più mi rendo conto che a restare sono gli attimi vissuti lontani dal campo, quelli a luci spente, che parlano di noi per quello che siamo e non per quello che abbiamo fatto.

Penso a quanti tra i miei compagni di nazionale mi conoscono da quando ero un bambino, penso a quanti di loro hanno condiviso con me decenni di sport, in cui le sconfitte sono state numerose quanto le vittorie e dolorose il doppio.

Penso a Rio e alla promessa.

Penso alla mia famiglia, che dopo aver vissuto i Giochi attraverso uno schermo ha finalmente potuto riunirsi intorno a un tavolo, per toccare la medaglia e festeggiare.

Penso che ogni racconto abbia un inizio e una fine, ma che l’ordine con cui li presenti non abbia importanza. E soprattutto penso che, a volte, per farsi capire, bastino pochissime parole, come mettere in fila quelle che aprono ogni paragrafo di questa mia storia.

Earvin Ngapeth / Contributor

Earvin Ngapeth