La mente pesante non riesce a volare.
Quando la testa è piena di pensieri diventa un’ancora, e ti trattiene al suolo, appesantita dalle sue preoccupazioni e dalle sue domande.
Sgombrare l’anima è un affare complicato, ed è anche il risultato di un momento solo, quello perfetto, che si concretizza nell’assoluto silenzio rotto dai passi lunghi di una rincorsa arcuata.
Sono convinta di fare bene solo quando mi sento sicura, e la sicurezza me la da soltanto sentirmi bene fisicamente.
Quindi sto bene se mi sento sicura, e mi sento sicura se sto bene, in un inseguirsi senza capo né coda della causa e dell’effetto, sorelle gemelle che non si ricordano più chi è venuta al Mondo per prima.
Ho sempre trovato il salto in alto una disciplina intuitiva, quasi semplice.
Avevo provato sia con il nuoto che con la ginnastica artistica, prima, ma cloro e polvere mi appesantivano i polmoni, mi corrodevano le giunture, come ruggine invadente che si impadronisce di una bicicletta lasciata distrattamente sotto all’acquazzone.
Aria.
Mi serviva l’aria aperta, e quando i miei genitori mi hanno portata al campo di atletica, il mio corpo si è sciolto nell’estasi dolcissima della comunione tra le cose.
Vento, tartan, angoli, asticella: tutto ha trovato il giusto incastro, in una mente che da sempre aveva fatto della propria vita un tetris senza fine.
© Buschettini
Il salto in alto è disciplina complessa, anzi complicata, e si passano le giornate a studiarne le varianti, le ipotesi, le conseguenze d’ogni minimo ritocco.
In me, invece, tutto fluiva in maniera naturale, come l’estensione stessa del mio corpo, come un dialogo di fluidi che dalle mie gambe attraversavano lo stomaco, poi la testa e le braccia, per adagiarsi calmi sul tappetone a fine corsa.
Per cui mi sono specializzata presto, comprimendo tutto il mio essere in quella rincorsa ad un uncino che avrebbe tanto definito la mia esistenza, quasi ad aspettarmi di trovare una spinta in più alla fine dell’arcobaleno, per andare sempre più in alto.
Come se schiacciare tutta la mia persona dentro ad una dozzina di balzi lunghi e ben marcati mi potesse aiutare poi a fare capriole sul Mondo.
Intorno ai 14 anni ho fatto il record italiano cadette, una delle misure più importanti in assoluto, anche a livello internazionale.
Eppure faticavo ad accettarne le più estreme conseguenze.
Le mie due parti, i mie due pezzi di anima, non parlavano tra loro, e si nascondevano l’una sotto la gonna dell’altra.
Ero diventata quella che salta.
Niente di più e niente di meno.
Nei corridoi della scuola, in classe, a passeggio con le amiche: all’improvviso tutto ciò che mi poteva definire si racchiudeva magicamente nella definizione di un gioco, di uno sport, di un semplice passatempo.
Ero diventata un gesto, nient’altro, e nell’ombra di quel gesto avevo perso me stessa.
© Buschettini
Le mie prestazioni erano sulla bocca di tutti, tranne che sulla mia.
I giornali iniziavano ad interessarsi a me, al mio potenziale, a quello che sarei potuta e dovuta diventare, a dispetto dei miei pensieri, forse ancora acerbi, e della mia volontà, subordinata da sempre al mio inespresso desiderio di leggerezza.
Ricordo che a casa arrivavano tanti scatoloni di vestiario, mandati da uno sponsor tecnico, uno di quelli importanti, per cui di solito gli adolescenti fanno la fila all’ingresso dei negozi.
E io nascondevo tutto.
Usavo quello che dovevo usare, al campo, ma mi rifiutavo di farlo appena uscita dal cancello, come se quella fosse già diventata la mia divisa, la tuta da lavoro.
Mi compravo i vestiti, tra l’incredulità delle amiche, che invidiavano il mio guardaroba sportivo, perché non volevo essere identificata con quello che facevo.
L’identità è una cosa strana.
Inafferrabile eppure invadente, come un malditesta che rimbalza da una tempia all’altra e che si quieta solo quando le concedi libertà dai pensieri che non le dovrebbero appartenere.
© Buschettini
Ho smesso per un po’ di fare solo il salto in alto, e sono tornata a fare diverse discipline contemporaneamente.
Mi serviva testare i mie spazi e i miei tempi, muovendomi quasi a tentoni, con lo stesso dubbio con cui lo farebbe un bambino, che non sapresti dire se si tratta di curiosità o di senso d’urgenza.
Avevo 15, 16 anni, e la strada di fronte a me sembrava essere già stata lastricata d’oro da qualcun altro al posto mio, dalla pedana fino al Regno di Oz.
Lo sport ha tante, magnifiche, stranezze e unicità.
Sa mentire, per esempio, o quanto meno sa tenerti nel limbo delle verità non-dette, che, mezze-omissioni e mezze-scelte, sanno come diventare un dolce purgatorio.
Ho sempre amato il salto in alto e proseguire nella ricerca dell’eccellenza, stagione dopo stagione, è sempre stata una mia precisa volontà.
Fin da quando ero piccina, il solo istante in cui mi sento davvero completa è quando i pezzi si incastrano ed in pedana le cose vanno bene.
Nulla è uguale alla pienezza di quel momento, che si prepara nei mesi, si concretizza nel salto e si rilascia in una pioggia di endorfine nel momento esatto in cui rivedo l’asticella comparire al fondo dei miei piedi.
Allo stesso tempo, però, il sentiero è tracciato prima ancora che ne prendi pieno possesso.
I risultati ti portano ulteriori aspettative, che ti portano attenzione mediatica, che spesso ti porta uno stipendio e che ti catapulta in un professionismo totale prima di aver capito come sia successo davvero.
In pedana, fino a quel giorno, ero stata puro istinto, tanto nel bene quanto nel male.
Fino alla maggiore età, ero quasi inconsapevole, leggera, come se fossi il fortunato possessore di un biglietto vincente della lotteria, o la costude di un segreto antico, confidato a me, e a me soltanto.
Poi sono cominciati i problemi fisici.
Tanti.
Troppi.
Forse in parte il riflesso di una lotta interiore che non ho mai messo del tutto a tacere.
© Buschettini
Appena entrata nel mondo dei grandi mi sono operata ad una caviglia ed è cominciato un pellegrinaggio laico alla ricerca dell’equilibrio perduto.
Dal 2011 al 2016 ho cambiato spesso città, allenatori, persone intorno a me, come Ulisse di ritorno da Troia, sospinto lontano da casa dal soffio di venti iracondi.
Mi sembra di aver vissuto l’equivalente di un paio di vite, ma senza ricavarne soddisfazioni sufficienti nemmeno per una.
La dolce inconsapevolezza dell’adolescenza è finita di colpo e mi sono accorta che la donna e l’atleta che vivono in me non avrebbero più potuto spartirsi il mio tempo come sorelle dispettose.
Non bastava più accendere e staccare la spina arrivata in pedana e tornata a casa.
Serviva che una investisse per il successo dell’altra.
Serviva che entrambe capissero di non essere sole e che la loro stessa affermazione dovesse passare dalla collaborazione con l’altra.
Solo la loro volontà mi ha impedito di smettere.
Averle presentate l’una all’altra, e aver scoperto che mi avrebbero aiutata, mi spinto a continuare.
Per la prima volta in vita mia sono stata costretta ad affrontare la certezza che il talento da solo non basta, e che i sacrifici richiesti per tornare in alto avrebbero richiesto la pienezza di quel che sono.
Per questo il mio personale e i successi raggiunti da donna adulta hanno un sapore più intenso di quelli ottenuti prima di diventarlo.
Il mio lungo percorso di scoperta è ancora un mistero buffo, che a volte mi fa sentire leggera ed altre volte invece no.
Ci sono giorni, momenti, interi periodi in cui la guerriglia interiore riparte, e io finisco nel mezzo, ferita dal fuoco amico, di chi pensa di sapere che cosa è giusto per me.
Ma forse la verità è che una risposta sola non esiste, e che conviveranno per sempre in me espressioni diverse del medesimo racconto, come se due scrittori avessero osservato la mia vita e avessero deciso di metterla nero su bianco.
Ognuno a modo proprio.
Forse la verità è che il mio equilibrio è l’equilibrio dell’altalena, che nel continuo rimbalzare di emozioni differenti crea un moto senza fine.
E con il passare del tempo, dalla felicità che si prova di quando si viene lanciati avanti e dal senso di vuoto che si prova quando si torna indietro, si può anche imparare a lasciarsi cullare.