La mia prima gara in sella ad una bicicletta l’ho persa.
L’ho persa in volata.
E l’ho persa contro un Elia. Un altro Elia.
Avevo appena 8 anni, le due ruote erano entrate da pochissimo tempo nella mia vita e finire secondo dietro a qualcuno che portava il mio stesso nome mi è sembrato come una burla del destino: il segno chiaro di un qualcosa, il ciclismo, che voleva a tutti i costi attirare l’attenzione di un bambino.
In casa eravamo tre fratelli e giocavamo tutti a calcio, in fin dei conti siamo pur sempre italiani; ma c’era un mio compagno di classe che, a differenza degli altri, aveva scelto il ciclismo ed io ne ero affascinatissimo. Quello che faceva lui era unico, strano, diverso soprattutto per gli occhi dei bambini che tendono in maniera naturale a cercare di uniformarsi l’uno con l’altro. A cercare di assomigliarsi.
Per cui ho iniziato anche io a pedalare e dopo la sconfitta al fotofinish dell’esordio è arrivata subito la mia prima vittoria, ovviamente in volata anche quella.
Spoiler alert: non sarà l’ultima.
E a farne le spese fu proprio “l’Elia sbagliato”, la nemesi inaugurale che il ciclismo, mondo di eroi cavalieri e di duelli all’ultimo chilometro, mi ha messo lungo il tracciato.
© Russ Ellis
Per qualche anno ho proseguito sul doppio binario: calcio d’inverno e ciclismo d’estate, dando così sfogo a tutta l’energia dinamitarda che sentivo pomparmi dentro le gambe.
Il calcio, con il suo modo di vivere lo spogliatoio intensamente a prescindere dall’età di chi ci sta dentro, era il luogo dove trovare gli amici, il posto dove ho iniziato a scoprire le dinamiche base del lavoro di gruppo.
Mentre le due ruote, invece, erano il mezzo perfetto per sfidare me stesso, per soddisfare appieno il mio desiderio inesauribile di competere. Di vedere quanto valessi io.
Nel ciclismo sei, infatti, un uomo solo.
Soprattutto all’inizio: tu corri per te, non per “te e gli altri”. Ed è esaltante.
Le dinamiche del gioco di squadra entrano più tardi di quanto non facciano negli altri sport e lo fanno solo e soltanto quando ormai il tuo modo di gestire le corse è un dato di fatto, una realtà conclamata. Non quando inizi.
Nel ciclismo la squadra decide di affidarti un ruolo ma non ti definisce nella tua essenza di corridore.
Quando giocavo a calcio era diverso invece: o sei l’attaccante o sei il difensore e io, pur divertendomi come un matto durante gli allenamenti, sentivo come profonda ingiustizia il concetto della responsabilità condivisa.
Perdere per colpa degli altri mi ha sempre infastidito oltre ogni logica, facendomi letteralmente rodere il fegato. E altrettanto faceva vincere per merito degli altri, perché mi dava la sensazione di non avere il pieno diritto di festeggiare il risultato appena ottenuto.
In più facevo il portiere, ruolo in cui la solitudine si esprime tanto tecnicamente quanto fisicamente, isolato laggiù a metri di distanza dal resto della linea di difesa. Perdere perché un compagno sbagliava un gol o perché aveva commesso uno stupido fallo da rigore mi faceva sentire impotente come nient’altro al mondo.
Il mio desiderio chiaro e insindacabile di essere al comando esclusivo della mia performance è di sicuro tra le cose che mi hanno spinto a scegliere definitivamente il ciclismo.
© Russ Ellis
Il ciclismo è uno sport di squadra anche lui, ma quando sei sul sellino di fronte ad una montagna da scalare o ad una volata da percorrere a 60 chilometri l’ora, sono le tue gambe e il tuo cuore a dover spingere al massimo, nessuno può farlo al posto tuo.
Per nessuno dei metri che ti separano dal traguardo.
In bicicletta fino ai 12 anni sei da solo. Sempre. Tu corri per te che io corro per me, ed è una scuola di vita incredibile confrontarsi, già a quell’età, con la fatica che non puoi condividere mai e con la sconfitta che ti si appoggia addosso senza la possibilità di un aiuto esterno.
Le dinamiche del ciclismo dei grandi vengono inserite poco alla volta nel corso delle stagioni per dare modo ai ragazzi di formarsi prima compiutamente come atleti, di capire che tipo di corridori possono diventare. Dai dodici anni in su iniziano a dirti che se un tuo compagno prova una fuga forse è meglio non seguirlo perché così, in un universo dove tutti competono contro tutti, almeno non ci corriamo contro se stiamo portando la stessa divisa.
Tutto cambia quando arrivi nella categoria Junior, tra i 17 e i 19 anni, perché quella è l’età nella quale la realtà ti piomba sulla testa come una salita ripida alla fine di una tappa lunga: tu diventerai qualcuno oppure no?
È la prima categoria internazionale, le dinamiche di squadra iniziano a delinearsi, tu devi trovare il tuo posto nel circuito e la sola maniera di farlo è capire che corridore sei e che corridore diventerai.
Sei uno scalatore?
O un velocista?
Ti esalti o ti deprimi di fronte alle prime difficoltà?
Questo è il vero momento che definisce la carriera di tutti noi e riuscire a capire le proprie qualità e la loro prospettiva di crescita futura è quanto di più complesso possa esserci da fare per un ragazzo poco più che adolescente.
In molti mollano qui, schiacciati dalle pressioni di alcune squadre più interessate a raccogliere risultati che a formare atleti adulti sereni e responsabili, oppure delusi dalla trasformazione in gregari che ridisegna a forza l’immagine che hanno di sé stessi dopo anni fatti di protagonismo individualista.
Il ragazzo giovane, promettente, che si mette in mostra sulle due ruote è l’uomo copertina del suo personalissimo viaggio, padrone delle proprie sofferenze e celebrante delle proprie imprese.
Fino al muro del professionismo.
Lì l’aria si fa più rarefatta, la specializzazione estrema incombe come una tempesta e per sopravviverci dentro devi trovare il tuo ruolo, capire in cosa sei più bravo degli altri.
Da giovane individualista a leader è semplice come passaggio.
Da giovane individualista a gregario invece no.
Nel ciclismo non esistono le serie minori, come negli sport di squadra, e se vuoi farlo di mestiere devi passare obbligatoriamente questo esame crudele.
© Russ Ellis
Io fortunatamente non ho mai avuto il dubbio di non arrivare. Nelle giovanili, ogni anno, raccoglievo tanti successi, soprattutto in volata e quando mi andava male arrivavo secondo. Sentivo di essere indiscutibilmente al posto giusto, capace come sempre di arrabbiarmi dopo ogni gara non perfetta.
Sentire di essere dove dovresti essere non è garanzia di esserlo per davvero, non nel ciclismo, perché ti serve almeno una seconda persona che la pensi come te. Qualcuno che decida di darti una chance nel mondo dei professionisti, che ti dia un contratto e che ti dica: “ecco la tua bici. Quelli, da ora, sono i tuoi compagni.”
Oltre alle gambe e alla capacità polmonare occorre misurare anche altre cose prima di dare un’occasione ad un giovane perché le difficoltà vere arriveranno e lo colpiranno nella testa e nel cuore prima che nei muscoli e nel fiato.
Io ho avuto la fortuna di incontrare Paolo Slongo, che mi ha seguito fin da quando ero bambino, sbirciando da dietro le quinte, e che mi ha dato la mia prima chance a livello pro, dando così inizio a quella parte di carriera, la punta dell’iceberg, che conoscono tutti perché ripresa dalle telecamere.
Anche il rapporto che ho con la pista affonda nel mio passato più remoto: già dai primi anni delle giovanili venivo spesso portato ad allenarmi lì, senza mai saltare una settimana, con l’idea che fosse propedeutica alle competizioni su strada.
Sulla pista però io raccoglievo molti risultati, ero pur sempre quello che si scocciava a giocare a calcio perché la vittoria non dipendeva solo da me, e quindi finivo sempre col tornarci, a caccia di nuove soddisfazioni personali.
Da allora la pista è il mio habitat naturale quanto e forse anche più della strada.
È come ricollegare i fili con il bambino competitivo che ero, perché lì si corre uno per nazione, da soli dentro ad una specie di ottovolante spaziale nel quale contano soltanto le tue forze, dove tutto il resto intorno è sfumato.
È più facile per me correre così.
Su strada avverto maggiormente le pressioni altrui, percepisco il lavoro degli altri dipendere dal mio e viceversa, caricandomi in sella anche il peso di un qualcosa di condiviso ed enorme. In pista invece sento di dipendere soltanto da me stesso e questo mi tranquillizza ed esalta allo stesso tempo, tirando fuori il meglio che ho dentro.
Tanto nel bene quanto nel male ovviamente.
A Londra 2012 sono arrivato sesto, una delusione, eppure sentirmi il solo colpevole di qualcosa andato diversamente da quanto pianificato mi dava una lucida tranquillità nel mettermi al muro. Una sorta di patto inscindibile stipulato con l’unica persona al Mondo alla quale non puoi mentire mai, anche se ti è concesso provarci.
Ho detto allo specchio che a Rio sarei arrivato in condizioni tali che sarebbe stato impossibile per chiunque battermi. E così è stato, anche se l’anno che ha preceduto la competizione olimpica mi ha costretto a sacrifici enormi e ad una pianificazione estrema del mio tempo e delle mie risorse.
La medaglia è stata solo una conseguenza: l’allineamento di due giorni di perfetto equilibrio e performance per i quali avevo duramente lavorato.
© Russ Ellis
La gara è stata, di fatto, la cosa più semplice.
Semplice anche perché ho sempre avuto la percezione di una sottile, ma importante, differenza tra la pista e la strada: che una maglia gialla, anche se la vesto io, è comunque per tutti i componenti della mia squadra, mentre una medaglia d’oro, anche se sto rappresentando un Paese, è comunque solo per me.
Rio mi è rimasta dentro non soltanto per il risultato ma anche per il calore umano di un’Olimpiade che ha stupito tutti, soprattutto dopo aver visto la disorganizzazione totale del Villaggio trasformarsi, negli ultimi 10 giorni a disposizione, in una struttura perfettamente funzionante. Il paragone con la freddezza di Londra è ingeneroso.
Oltre alla medaglia, da Rio, mi sono portato a casa anche una delle esperienze più intense della mia vita tra quelle vissute giù dal sellino. Un anno prima dell’Olimpiade siamo andati a visionare la città per studiare i percorsi che avremmo incontrato in gara e ne ho approfittato per andare a visitare una favela cittadina.
Accompagnati da un ex calciatore brasiliano, che ha giocato anche in Italia, ci siamo addentrati in uno dei quartieri più unici del pianeta, un luogo che vive secondo regole proprie e nel quale, senza qualcuno che garantisce per te, non potresti neppure entrare.
La presenza della nostra guida, che viene proprio da quella favela e che per i suoi abitanti oggi è un simbolo di riscatto sociale, ci ha permesso di girarla interamente, di entrare nelle case e di conoscere le persone che la vivono.
Un’esperienza che non dimenticherò mai.
Prima di arrivare alla prossima Olimpiade però ci sono tante cose da fare e la prima in ordine di tempo è il Tour de France. L’ho corso solo una volta in carriera, nel 2014 con la Cannondale, in supporto a Sagan, e non vedo l’ora di testare nuovamente le strade francesi.
Della mia prima partecipazione ricordo soprattutto la grandezza dell’evento e il ritmo esagerato che le squadre imponevano già nelle prime tappe, come se volessero mandare un segnale immediato, facendo selezione spietata fin dal primo chilometro.
Oggi mi avvicino alla Grand Boucle forte di una grande squadra alle spalle e arrabbiato per un Giro sottotono nel quale ho raccolto tanti secondi posti e una vittoria-non-vittoria.
Qualche anno fa avrei messo la firma per dei risultati del genere ma la carriera di un ciclista è un gioco al rialzo, nel quale conta soltanto l’ultima mano giocata e la sola maniera per rimanere seduti al tavolo è aumentare sempre la tua puntata.
Esattamente come in una partita a poker, dove il buio e il grande buio aumentano inesorabilmente con il passare delle ore.
Ci vuole mentalità per alzare sempre l’asticella ma allo stesso tempo è una mente matematica a tenermi sempre con i piedi ben saldi per terra: perché, pur pretendendo sempre moltissimo, non mi chiederò mai nulla che non sappia di poter raggiungere.
Anche se agisco sempre come l’eterno insoddisfatto che vuole essere l’unico padrone del proprio destino, in fondo sono un allegro ottimista e, a fine giornata, sul mio tavolo, ci sono soltanto bicchieri mezzi pieni.