Elisa Di Francisca

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Negli adolescenti i mesi contano come gli anni dei gatti: vanno moltiplicati per sette, forse anche di più. Perché quando sei adolescente è come vivere la febbre dell’oro dei vecchi esploratori, quelli che scavavano le miniere o passavano i fiumi col setaccio alla ricerca di pepite dorate.

Sempre in movimento, mai sazio, il cervello dell’adolescente vive in tensione costante, protratto verso altro. Qualunque cosa quest’altro sia: un’emozione, una ribellione o un cambiamento.

Quelli sono gli anni più profondi, non perché tu sia capace di chissà quale riflessioni filosofiche, anzi, spesso sei solo un ammasso di istinto con le scarpe che gira per la città senza sapere esattamente cosa vuole, chi è e cosa gli piace.

Sono anni profondi perché tutto ciò che diventerai da grande ti si deposita dentro in quei mesi, si scolpisce lì. E lì rimane per sempre, alla luce del sole oppure coperto dal grigiore delle responsabilità che poi hai dovuto affrontare crescendo.

Le amicizie che non hanno bisogno di spiegazioni di alcun tipo, le passioni sportive, i primi amori, persino il gusto e l’olfatto, tutto quello che diventi e tutto quello che ti piace inizia in quegli anni. 

Gli anni tra i 15 e i venti, e non prima, visto che una volta non eravamo così precoci come lo sono i giovani di oggi.

Quei giorni quindi contano per sette, perché inizi a poter fare le tue scelte, anche solo quelle piccole, che sono piccole solo in apparenza, ed inizi a chiederti cosa ti piaccia veramente, perché in fin dei conti non lo sai nemmeno tu.

Credit Augusto Bizzi

I bambini piccoli sono come delle spugne e assorbono tutto quello che la casa ha da insegnare, a voce oppure no, sotto la guida o l’esempio dei genitori, dei nonni, degli zii e dei fratelli maggiori. 

L‘educazione, le buone maniere, ok, ma anche cose più immediate, più semplici: gli odori che si sentono arrivare dalla cucina in un giorno in cui sei stata brava a scuola, la musica da mettere nelle casse quando si fanno le pulizie della domenica, il dvd ormai consumato con sopra il solito, magnifico, cartone animato Disney. 

Il carattere di ogni bimbo è frutto delle scelte di chi lo circonda e di chi lo educa, definendosi per semplice omologazione oppure per la sua voglia di essere diverso almeno un po’.

Ma dentro, sotto ad ogni bambino, c’è sempre una natura propria, unica, che conosce sé stessa meglio di quanto si possa immaginare. 

Una natura fedele soltanto al proprio istinto innato, che ti trasforma crescendo.

Il bambino cresciuto in una famiglia di sportivi può avere un cervello innamorato della matematica, così come il figlio di una coppia di professori di matematica può ritrovarsi ad avere talento per lo sport e non riuscire a pensare a nient’altro.

E così l’adolescente, ogni adolescente del mondo, diventa una combinazione unica di ciò che c’è stato nella sua infanzia e di ciò che sogna esserci nel suo futuro. 

Ascolta la musica rock, se vuole, ma quando parte la canzone che ascoltava sempre da bambino il ricordo gli bussa sullo sterno e lo commuove. 

Impara a cucinare piatti strani, che vede in tv, ma sente l’acquolina in bocca al profumo delle lasagne che mamma cucina alla domenica.

L’adolescente è un ibrido, una metamorfosi costante e per lui, o per lei, ogni giorno conta per sette. 

Gli amori sono assoluti, le scelte tutte definitive, le sconfitte inconsolabili e le amicizie sono quelle che soffriresti a perderle.


Io da adolescente ero una ribelle. 

Avevo uno spirito sbarazzino che sentiva il bisogno di provare cose diverse, di sbagliare persino, ma di farlo comunque senza briglie addosso.

Da bambina mi ero avvicinata alla scherma, che a Jesi è più di uno sport ed è difficile non esserne contagiati. La scherma è una disciplina e alla disciplina ci arrivi pezzo per pezzo, iniziando dal gioco, dal più semplice e spensierato dei rubabandiera, mica ti danno un fioretto in mano subito. 

Quando ho iniziato a tirare in pedana però fu chiaro a tutti che io avessi talento. 

Quella scuola è stata fondata dal maestro Triccoli, nel 47, che era tornato da un campo di prigionia in Sudafrica dove era stato internato durante la Seconda Guerra Mondiale e dove aveva imparato l’arte della scherma. 

Parliamo della storia di questo sport, e lui, poco prima di andarsene disse di me ai miei genitori: ha l’oro nelle mani, l’importante è che la testa resti al suo posto.

E lì è sempre rimasta la mia testa, al suo posto, anche se forse non sempre era il posto che il maestro aveva immaginato essere quello giusto. 

Ma la mia testa è sempre rimasta sulle mie spalle, fedele alla mia natura libera, alla mia voglia di provare tante cose diverse.

Credit Augusto Bizzi

Prima di tutto io facevo fatica a sacrificare le mie “cose”, che poi erano le “cose” di tutte le ragazze di quell’età, in nome di uno sport. Mi saliva una rabbia profonda quando i compagni che organizzavano qualcosa fuori dalle ore di scuola mi dicevano: che ti invito a fare? tanto non ci sei mai!

Mi sentivo sedata, un po’ intrappolata, e non mi andava bene per niente. 

Volevo andare in gita, a cena con le ragazze, a ballare, senza dover sacrificare tutto per forza.

Io non sono mai stata una persona dritta, ho sempre sentito la necessità di perdermi nei miei meandri, di sbattere la testa contro gli spigoli, di andare a controllare come sono fatte le cose con i miei occhi.

Ad essere ribelli e libere capita anche di inciampare. 

E nella mia adolescenza sono inciampata in un tipo di problema che ancora tantissime donne, purtroppo, si ritrovano a fronteggiare: quello di un compagno geloso e possessivo.

Un compagno talmente geloso che mi ha spinta a smettere con la scherma, tanto erano pressanti le sue manie di controllo e le sue insicurezze. 

Ogni trasferta era diventata un motivo di litigio, ogni telefonata l’occasione per una scenata di gelosia ed io, dopo una brutta lite degenerata in una rissa, ho detto basta.

Basta con lui certo, ma anche basta con la scherma, che era stata in quella relazione la principale fonte di discussione.

Basta pedana, basta fioretto, basta sacrifici e rinunce: io volevo provare cose nuove.

Ho fatto la commessa, ho lavorato al ristorante e in gelateria. 

Ho fatto quello che mi andava di fare, fedele alla mia natura più intima, navigando a vista e godendomi il momento, senza sentirmi per forza obbligata a ragionare con lo sguardo rivolto sempre in lontananza.

Sono stata ferma a lungo dalla scherma, e uno dei motivi per cui ci ho messo un po’ a decidere di tornare è stata la lunghissima lista di: ma tu hai talento, sei sprecata! che mi sentivo recapitare quotidianamente.

Non volevo essere incatenata in un preciso percorso per ciò che sapevo fare, ma volevo trovarmene uno che mi permettesse di essere ciò che volevo essere. 

E c’è una bella differenza. 

Noi non siamo quello che facciamo.

Se nell’adolescenza però ogni mese conta come gli anni dei gatti allora quante capacità avevo perso in quei giorni spesi a fare altro? 

Quando la voglia di fare sport è tornata a suonarmi nelle orecchie presto la mattina, come una sveglia senza il tasto di spegnimento, io sarei riuscita a riprendere da dove avevo lasciato?

Ad essere sincera non è stato difficile tornare a livelli di assoluta eccellenza.

L’aver fatto altro per anni mi aveva levigato il carattere, mi aveva insegnato a valutare correttamente il peso delle mie scelte e, più di ogni altra cosa, mi aveva impresso negli occhi la bellezza di quello che avrei potuto fare in pedana.

La straordinaria possibilità di competere, di trionfare, di duellare sotto gli occhi delle telecamere e del Mondo, il desiderio di vincere, la paura di non farlo, l’eleganza di un gesto ripetuto ogni giorno ma sempre nuovo.

Aver fatto altre cose mi ha fatto sentire la mancanza di tutto questo e ha reso più semplice il ritorno e più dolce la fatica.

Credit Augusto Bizzi

La ribelle che ero però è rimasta dove stava prima e altrettanto ha fatto la testa, proprio in mezzo alle spalle, salda sul collo. Quando mi sono arruolata in Polizia, piangevo un giorno sì l’altro pure, accumulavo i fogli per i permessi nel tentativo di evadere il più possibile dalla caserma. 

Una ribelle costretta a mettere gli anfibi e fare l’alzabandiera mattutino.

Il primo mondiale vinto, nel 2010, ha però cambiato tutto: ha dato un corpo e una forma ai miei sacrifici, mi ha permesso di capire che era tutto reale e che io potevo, e posso essere, rigorosa eppure libera allo stesso tempo.

L’adolescente che sono stata è la matrioska piccola della donna che sono. 

E anche dell’atleta che sono.

Mi alleno duramente, come tutti, ma in pedana io seguo l’istinto, assecondo la mia creatività: mi fido di quello che so fare senza pensare, di quello che si esprime sotto forma di estro naturale, senza filtrarlo con altri pensieri.


Il mio sport è allo stesso tempo sia individuale che di squadra e ti può capitare di tirare per una medaglia pregiata contro quelle stesse ragazze che, più tardi, saranno in pedana con te per cercare di raggiungerne un’altra insieme.

Come all’Olimpiade di Londra, dove nella gara individuale siamo arrivate prima seconda e terza, io, la Errigo e la Vezzali e poi abbiamo dovuto nascondere sotto al tappeto i piccoli malumori reciproci per prenderci l’oro a squadre insieme qualche giorno dopo. 

Io la chiamo prevaricazione cordiale.

Ed è alla stessa maniera che il mio istinto prevarica la mia disciplina: con cordialità, sapendo comunque che si servono a vicenda.

Tutto questo lungo percorso mi ha lasciato tante emozioni, ed altre ancora me ne offre tutti i giorni fortunatamente. La piccola ribelle è riuscita a vestire alla grande la maschera da mettersi in pedana e allo stesso tempo a tenersi stretti i propri vestiti preferiti. Non mi sono fatta mai mancare nulla, in fondo sono una godereccia.

E adesso sono anche una mamma, che è un lusso che poche atlete in attività riescono a concedersi nei tempi e nei modi che vogliono.

Ma anche nella maternità i tempi mi sono stati dettati da qualcosa di profondo, è stato l’istinto a farmi capire che avevo finalmente accanto la persona giusta per me: qualcuno che di me ama e accetta tutto, isterie, follie e passioni stravaganti comprese.

L’adolescente che è rimasta viva dentro di me, ha fatto capire chiaramente di voler diventare mamma in pedana a Rio, durante la finale, perché quando andavo in escandescenza, il mio cervello immaginava un bambino che piangeva. 

E provando a calmare lui finivo con il calmare anche me stessa.

Era un segnale inequivocabile anche per chi, come faccio io, tende a visualizzare molto in generale. Una vera e propria visione.

Fedele al mio modo di vivere le cose mi sono fermata completamente durante la gravidanza, non facevo altro che mangiare e dormire.

Andavo spesso in riva al mare, perché volevo che il bambino sentisse le onde e che sentisse anche la mia tranquillità, quella personale, che mi stavo concedendo.

Credit Augusto Bizzi

Ora per la piccola ribelle tutto è cambiato nuovamente. 

Sono tornata in pedana e, com’è successo la prima volta che ho dovuto farlo dopo un lungo stop, non ho fatto troppa fatica, perché io credo che se corpo e volontà vanno ancora d’accordo allora sono poche le cose che non riuscirai ad ottenere.

Tutto è cambiato perché oggi mi alleno di meno, ma lo faccio meglio.

E lo faccio meglio perché la voglia di tornare a casa mi spinge a condensare la mia attenzione in uno spazio ridotto, più corto, e quindi più produttivo.

Siamo tutti un po’ ribelli in fin dei conti, non lo è soltanto chi scappa di casa o chi si licenzia per cambiare vita e viaggiare intorno al mondo. 

Siamo dei ribelli quando decidiamo di usare una bicicletta per districarci in mezzo al traffico immobile e triste dei pendolari.

Siamo ribelli quando decidiamo che non sarà il nostro lavoro a suggerirci quando diventare genitori.

Siamo ribelli quando decidiamo di ripitturare casa da soli, di domenica, per vedere se siamo capaci di farlo, siamo ribelli quando proviamo a fare il pane in casa piuttosto che comprarlo o quando ce ne freghiamo del parere dei colleghi e ci iscriviamo ad un corso nuovo frequentato solo da ventenni.

Ci ribelliamo sempre, e allo stesso tempo non lo facciamo mai, perché la ribellione è soltanto il ricongiungimento con qualcosa che è già tuo da sempre.

Elisa Di Francisca / Contributor

Davide Calabria