Avevo viaggiato durante la notte e raggiunto così i miei nuovi compagni direttamente a Phoenix, più precisamente all'US Airways Center.
I Jazz mi avevano comunicato poche ore prima di avermi ceduto, così io ho dovuto fare i bagagli e partire in brevissimo tempo.
Ero arrivato a Salt Lake City soltanto da qualche mese, diretto dopo il draft, e stavo imparando da uno dei migliori in circolazione nel mio ruolo: Deron Williams.
D.Will era davvero una bestia: aveva un fisico esplosivo pur portandosi in giro il doppio della massa muscolare rispetto alle altre point-guard in circolazione, un marziano.
Anyway, più o meno a metà stagione, arriva la comunicazione:
Eric, vai a Oklahoma, pack your stuff.
Problemi di luxury tax, niente a che veder con il mio rendimento in campo, ma questo è il business nell'NBA. You have to live with it.
Sono arrivato in Arizona quindi perché i Thunder giocavano lì, in trasferta, ed io non avevo avuto neppure il tempo di allenarmi con i nuovi compagni.
Per cui ho deciso di sedermi in panchina, fianco a fianco con Scott Brooks, perchè volevo dimostrargli che se fosse servito sarei stato pronto ad andare in campo anche in quella situazione. È importante nella NBA dare sempre garanzie a chi ti circonda, in ogni momento, in ogni situazione, se non vuoi avere vita breve.
So coach, io sto bene, e mi sento pronto, cosa posso giocare in campo? Che schemi posso chiamare ?
Well Eric, fammi pensare, puoi giocare pick & roll, certo. Poi se ti trovi in difficoltà, lo vedi quel ragazzo magro con il numero 35?
Mentre lo diceva mi indicava Kevin Durant in mezzo al campo che si stava riscaldando; ripeteva ossessivamente le sue partenze fulminanti, con le gambe che ogni passo facevano 2 metri, e il suo jumper, con i polpastrelli più morbidi che abbia mai visto.
Ok se non sai cosa fare dai la palla a lui e ti sposti, fidati ti renderà la vita molto più facile!
Per tre anni e mezzo non ho più smesso di passargli la palla e lui non ha mai smesso di far sembrare facili le cose difficili.
Da questo punto di vista l'NBA è un posto selvaggio.
La chiamano The League of Ego e non sbagliano nel farlo, perché per stare dentro ad uno di quegli spogliatoi senza farti schiacciare ti servono delle spalle larghissime.
Tutte superstars al college, tutti professionisti furiosi, e qualunque cosa tu faccia viene messo sotto al microscopio dallo staff tecnico, dal management, dai compagni, dai media e dai fans.
Se fai qualcosa di buono puoi star sicuro che qualunque appassionato di basket lo verrà a sapere e puoi sentire di toccare il cielo con un dito. Ma non devi mai dimenticarti che vige sempre, come una sentenza, la regola del next man up: se inciampi c'è qualcuno che ti ha già preso il posto.
Immediatamente, neppure te ne accorgi.
All the way up or next man up!
Non c'è via di mezzo nell'NBA, è un approccio crudele forse, ma è questo il meccanismo che la rende così competitiva e affascinante.
Io arrivavo da una città fredda e sobria come Salt Lake ed il cambio con Oklahoma City è stato davvero impressionante da ogni punto di vista. Parliamo inoltre di un'organizzazione di primissimo livello, anni luce avanti alla maggior parte delle altre franchigie, anche per i canoni di quella Lega.
Pubblico caldissimo, un progetto tecnico personalizzato per ogni giocatore che prevede una crescita nel lungo periodo, da realizzare parallelamente all'utilizzo che dell'atleta viene fatto durante la stagione.
Devi finire l'anno come un giocatore migliore di quello che lo ha iniziato, per il bene tuo e del team.
Nelle prime settimane, arrivato così in corsa, mi sono sistemato in albergo, in attesa di trovare una casa adatta alle mie esigenze: che fosse vicina alla facility e comoda. Dopo qualche giorno bussa qualcuno alla mia porta, era James, il barba, che mi disse:
prepara un borsone, vieni a stare da me!
L'amicizia con lui, che era nata durante i giorni del draft, mi ha aiutato moltissimo ad inserirmi in tutte le dinamiche dello spogliatoio molto velocemente, e, visto che nei minuti in cui ero in campo la palla la portavo io, non si è rivelato un vantaggio da poco farmi ben volere da subito.
James viveva in una grande casa con diversi amici: per lui avere le persone care intorno è fondamentale per mantenere l'equilibrio.
Anche se quella era la NBA, io mi sentivo come se fossi ancora al college.
Il mio ruolo era cambiato, ok, le mie responsabilità in campo pure, ma la sensazione che sentivo nello spogliatoio con i miei compagni assolutamente no.
Eravamo una squadra giovanissima e con una vagonata di talento, di sicuro uno di quei team che passerà alla storia tra quelli di maggior talento a non aver vinto un anello.
James, KD e Russ: tre MVP sullo stesso campo, nel pieno dei loro anni migliori è qualcosa di difficilmente spiegabile.
Il ruolo di tutti gli altri, in un contesto del genere, è quello di essere il più possibile funzionali a loro, per permettergli di esprimere il talento che hanno, di incastrarsi al meglio l'uno con l'altro.
Anche se arrivi da una grande carriera liceale, e nel mio caso da quattro anni stupendi a VCU, devi avere la forza di resettare tutto, prendere il tuo gioco, le tue qualità ed adattarle alle caratteristiche di chi ha più talento di te.
La mia preoccupazione, visto che rispetto al college avevo iniziato a giocare da playmaker puro, era capire dove voleva la palla Kd, con che giri, a che altezza rispetto a dove posizionava le mani.
Quando un attaccante del genere prende un blocco per uscire e tirare il tempo in cui la palla arriva fa la differenza, perché tu puoi farla partire nell'istante in cui lui è passato spalla contro spalla al bloccante con tempismo perfetto, oppure farla partire qualche decimo di secondo prima, quando lui è ancora nascosto dietro al blocco.
Perché tanto è talmente esplosivo, rapido e alto da poter arrivare lui dove la palla sarà tra poco e non viceversa, così facendo accorci il tempo d'esecuzione e lui può bruciare anche il difensore più efficace.
Piccoli aggiustamenti.
Il re di queste cose era, ed è ancora, Nick Collison.
È un professore, serve nello spogliatoio, non potevi toglierlo, era la colla che teneva insieme i fenomeni. E non mi riferisco solo a livello umano, ma proprio tecnico.
Chi ha preso lo sfondamento late in the game? Nick Collison
Chi ha fatto il blocco perfetto per liberare all'ultimo tiro KD? Nick Collison
Chi è per terra per la 50/50 ball che cambia la partita? Beh sapete la risposta.
La grande forza di quel gruppo stava in questi particolari, sia tecnici che umani, ma la gente che osserva da fuori tende a dimenticarselo.
È facile dire:
ok con quei tre talenti lì la vita è facile!
Ma non basta, perchè alla fine, sotto la corazza prima di essere un atleta sei una persona e deve funzionare ciò che fa star bene quella o in campo non produci nè per te nè per la squadra.
La gente si ricorda che il professionista è un essere umano e non una macchina quando legge della depressione di DeRozan, o degli attacchi di panico di Kevin Love, ma queste sono dinamiche che possono esistere sempre, per ogni giocatore, non importa quanti soldi guadagna e quanto sia bravo in campo.
I miei 5 anni nell'NBA mi hanno fatto crescere come uomo e come atleta, ed aver vissuto in quello spogliatoio a OKC è stato sicuramente determinante.
Troppo spesso ci si dimentica che era una delle squadre più giovani di tutta la Lega e in quelle situazioni è come lanciare una moneta per aria e aspettare di vedere da che lato casca. Testa o croce?
Le menti giovani possono creare una fratellanza tra loro o un conflitto con la stessa facilità. Poca diplomazia tra i giovani, quella è una skill che si sviluppa con l'età.
Quello spogliatoio girava intorno alla presenza di tre leaders diversissimi tra loro, 2 angelini, ma con caratteri quasi opposti, ed un ragazzone di Washington che non parlava mai, oh mai per davvero.
Mentre invece Russ e James non perdevano mai l'occasione di dire la loro, di far sapere cosa pensavano di ogni giocata.
A volte fare incastrare le personalità dei tre è stato difficile, con KD era facile, lui dove lo metti sta, ma gli altri due?
Eppure è solo così che puoi fare quegli aggiustamenti di cui parlavo prima: parlando, confrontandosi ed in quella squadra la comunicazione funzionava.
Funzionava benissimo, al punto che noi eravamo sempre tutti insieme.
A casa di qualcuno a giocare ai videogames o a guardare altre partite: noi eravamo sempre insieme.
Quando mi sono rotto il crociato, James se n'era già andato, e quella scelta ha portato grandi frutti per lui, che con i Rockets è riuscito a esprimere il massimo delle sue potenzialità, ma a me aveva tolto un punto di riferimento importante.
Ero entrato nel mio contract year e ho sentito il cielo crollarmi sulle spalle per colpa di quell'infortunio.
La prima volta che ti fai male sul serio non sai quanta fatica farai, non conosci la strada che stai per percorrere e inoltre appena ci arrivi in fondo e torni sul parquet devi, ogni notte, scendere in campo e marcare un fenomeno.
Ti viene richiesto di essere al tuo meglio, il tuo meglio di prima di farti male, every night.
La mia fortuna è stata quella di aver vissuto questo trauma mentre giocavo per i Thunder, un posto dove la persona viene sempre prima del giocatore.
Lo dicono in molti, lo fanno in pochi, non lo pensa nessuno.
A OKC lo dicono, lo fanno e lo pensavano.
E dopo avermi aiutato a rimettermi in piedi hanno anche esaudito il mio desiderio di cambiare squadra. Io sarei rimasto lì anche tutta la carriera, ma in quel periodo non stavo giocando ed avevo bisogno di andare in campo, per far vedere a tutti che l'infortunio era alle spalle, che ero pronto.
Sam Presty mi ha aiutato anche in quello.
Sono finito a Portland e ho giocato molto bene, al punto da guadagnarmi poi un biennale a Washington.
Direi che non posso lamentarmi visto che in 5 anni di NBA ho fatto il backup a Deron Williams, Russell, Dame Lillard e John Wall.
4 fenomeni, tra l'altro con stili e qualità molto differenti tra loro. È stato come vivere dentro a un clinic.
Poi sono venuto in Europa, dove la gente vive il basket con un trasporto davvero eccezionale, e fin dal primo giorno l'ho sempre vissuta come un grande viaggio, una straordinaria avventura e mai come una bocciatura.
Ho semplicemente tirato una riga e cominciato a far quadrare i mie personalissimi conti.
Perché quando hai tirato fuori il massimo dalle tue qualità, con il lavoro e con la fatica, quando ti sei spezzato e poi rimesso in piedi, arriva il momento in cui ti ricordi il perché hai cominciato a giocare: il divertimento.
Quand'ero bambino, ragazzo, ho capito che volevo fare il giocatore quando ho visto i miei amici ad un bivio andare a sinistra ed io sono andato istintivamente a destra.
Non volevo cazzeggiare con loro di pomeriggio, io volevo andare in palestra, a lavorare sul mio fisico e sui miei fondamentali, perché quello mi divertiva.
Quando a Washington sono finito fuori dalle rotazioni ho smesso di divertirmi giocando a basket, ed è stato il basket europeo a ridarmi il mio mojo. E gliene sono grato.
Anche quando mi sono rotto nuovamente il crociato in Russia, più forte dell'incazzatura, più forte della paura, c'era la voglia di tornare in campo per giocare.
G-I-O-C-A-R-E
Fare giocate decisive, segnare o sbagliare un tiro importante, respirare vivo sul parquet: senza tutto questo mi sentivo in un luogo oscuro ed esserne uscito, anche grazie all'occasione che mi hanno dato a Varese, mi ha fatto tornare nel cuore del divertimento.
Quando mi guardo indietro e mi chiedo se c'è qualcosa che, ripartendo, farei diversamente non è facile rispondermi.
Non è facile perché sento di aver sempre lavorato duramente, di essermi sempre messo a disposizione di tutti, di non aver mai smesso di migliorare.
Ma se scavo profondo nella memoria, mi ricordo che ogni volta che arrivavo al campo, Russ e KD erano già lì, e quando me ne andavo stanco morto loro stavano ancora sudando.
Quando scavo mi ricordo dei racconti di chi aveva giocato al fianco dei più grandi della lega, come Kobe, e della loro incapacità di riposarsi.
Alieni.
È proprio vero quello che dicono, c'è sempre chi sta lavorando più di te, anche se tu senti onestamente di essere arrivato al limite, anche se senti che la prossima ripetizione di strapperebbe il muscolo.
Non lo so se cambierei qualcosa tornando indietro, so però che ho fatto del mio meglio, che mi sono adattato sempre e che ho giocato con alcuni dei giocatri più forti del Mondo.
So di aver sofferto e di aver gioito.
So di aver giocato tanto e anche poco, so che mi diverto ancora in campo e che ho molto da imparare ed insegnare.
So che nello sport, non solo in NBA, c'è la regola del next man up, ma quando sento qualcuno alle mie spalle prendere la rincorsa per provare a superarmi posso sempre spostarmi all'ultimo momento e fargli lo sgambetto sorridendo.
Not this time.