Ma tutto questo, io, lo faccio per cosa?
La domanda che mi ha cambiato la carriera me la sono fatta quando ero già grande, ma forse non ancora pronta del tutto. Erano gli anni della Coppa Europa, che a pensarci ora sembra passata una vita intera.
Per trovare una risposta alle domande difficili non basta dar fiato ai polmoni, serve di più. Serve un percorso, un piccolo-grande viaggio interiore, perché non esiste persona più difficile da convincere di quella che ti guarda allo specchio, convinta di sapere tutto quello che c’è da sapere sul tuo conto.
Così, in coda a quella domanda, ho trovato una risposta nuova e mi ci è voluto del tempo per trasformarla in qualcosa di pratico e di prezioso.
Da bambina la vita era soltanto un gioco.
E così dovrebbe essere per ogni bambino, a qualsiasi latitudine.
Mettevo gli sci unicamente per poter stare con i miei amici e con i miei compagni, lanciandoci sulla neve e dando sostanza, dando peso, alle ore della nostra infanzia.
Quello del divertimento è come un serbatoio, e quando diventi adulta e ti guardi indietro, vuoi esser certa di avercelo pieno, stracolmo, che la vita dei grandi è più complicata di così.
In casa si parlava di sport e si parlava di sci, ma con la serenità di chi poteva farne anche solo un passatempo.
I miei genitori mi hanno insegnato che la soddisfazione arriva solo se “hai dato il massimo” non se sei arrivata prima; e quest’impronta mi è rimasta dentro. Ancora oggi, se vinco una gara ma sento di non essere riuscita a fare la mia miglior sciata, mi resta addosso un velo di insoddisfazione.
Vincere non è affatto la sola cosa conta, non per me.
Dare il massimo, dunque, nello sport, con gli sci e pure a scuola: questo era già sufficiente a farmi sentire felice. Anche se non ero la più brava, anche se non riuscivo ad entrare nelle prime 50 della mia categoria.
Quando sono arrivata in Coppa Europa, però, dopo le prime settimane, dopo i viaggi, le valigie e la fisioterapia; dopo le cadute, gli allenamenti all’alba e le ore passate a lavorare sui dettagli, mi sono chiesta:
perché lo faccio?
Perché all’improvviso, nella mia quotidianità, non c’erano più gli amici di sempre, la mia bellissima casa e la mia ancor più bella famiglia, ma un contesto diverso, del quale non mi ero scelta niente: non il calendario, non gli spostamenti, non i compagni.
In quel momento ho realizzato che dovevo fare di più, che dovevo fare meglio, per dare un senso a tutta quella fatica e per compensare la leggerezza perduta.
© Armin Huber
Non è bastato capirlo per renderlo reale.
È stato un percorso, un percorso che non è ancora finito, e che ogni anno si allunga un po’, portandomi lontano, passo dopo passo.
Il lavoro è lentamente diventato la mia ossessione, uno dei metri di giudizio delle mie giornate. Non sempre con lucidità, lo ammetto.
Quando sono entrata in squadra A guardavo più alla mole che alla qualità, più al volume che alla cura dettaglio. Ero quella che doveva sempre fare un giro in più degli altri, fino a che non sentivo di essere arrivata al limite e di essermi sfinita.
Ho sbagliato.
Ho sbagliato per eccesso, che sarà anche un segno di buona volontà ma ha gli stessi effetti collaterali di sbagliare per difetto.
Quello dell’atleta professionista è un lavoro a tempo pieno.
Ti serve tutto quello che hai per farlo bene, per andare veloce dalla cima al traguardo.
Ogni dettaglio conta, ogni millimetro, ogni minuto di riposo, ogni caloria.
La differenza la fai quando impari a credere negli altri, nella squadra che hai scelto e che ha il compito di portarti pronta al cancelletto.
Lo sciatore è il solista per eccellenza, perché quando si butta a testa bassa verso il fondo valle non esiste paracadute. Sei sola, sei l’attrice sul palco, mettendo a rischio solo le tue, di gambe, ma portandoti dietro tutto il peso del lavoro degli altri.
Un pensiero che, anche se non vuoi, ti erode, come l’acqua che scava una roccia, porta dopo porta, goccia dopo goccia.
© Armin Huber
Imparare a fidarmi degli altri, a cui affido un pezzetto del mio sogno, è stata la cosa più difficile in assoluto ma anche la sola che avrebbe potuto portarmi dove volevo arrivare.
Prima facevo tutto da me, ed era sfibrante. Adesso quando metto gli sci non mi chiedo neanche se abbiano filo oppure no. Lo so già che sono perfetti.
Anno dopo anno abbiamo costruito un percorso, non privo di difficoltà e di momenti bui, ma modellato su di me, sulle mie qualità e sul mio carattere.
Se per un attimo mi fermo a pensare, sembra quasi che tutto abbia raggiunto una quadratura perfetta nella stagione scorsa, che per mille e una ragione, nessuno di noi potrà mai dimenticare.
Dal puro divertimento di bambina alla Coppa Europa, dalla Coppa Europa alla Sfera di Cristallo, ci sono sono state tante cose in mezzo, e anche se ho lavorato con un solo obiettivo in testa, quando è arrivato aveva comunque un sapore strano, diverso da come lo avevo immaginato.
Io volevo vincere una Coppa.
Non per forza la Generale, non osavo sperare tanto, me ne bastava una di specialità e sarei stata felice lo stesso. Visualizzavo il grande traguardo, proprio come visualizzo il tracciato di una gara, curva dopo curva: quello che devo fare e come lo devo fare.
La vittoria di quest’anno è, detto sinceramente, una cosa pazzesca, perché viviamo un’epoca d’oro, piena di campionesse complete, competitive su tutte le nevi e in tutte le discipline.
Durante l’inverno, vedermi nei piani alti della classifica, davanti a tutte loro, mi ha dato una tensione continua, un entusiasmo costante, perché la solitudine dei numeri primi è eccitante e carica di adrenalina.
© Giacomo Pompanin
Eppure è come se fosse mancata una fetta, alla mia torta.
Le Coppe sono arrivate per posta, non ho potuto celebrare con la squadra e cantare a squarciagola l’ultimo inno dell’anno, come avevo sempre immaginato di fare.
Mi ricordo quando, in una stagione passata, ero rimasta a guardare le prime tre classificate, ai piedi del podio finale, ripetendomi che era quello che volevo anche per me.
E quando è arrivato il mio momento è stato diverso.
Bellissimo.
Ma diverso.
Come ho sempre fatto, questo diventerà un punto di partenza e non di arrivo.
Ci sarà modo, spero, di festeggiarlo, ma nel frattempo il nostro Paese ferito riparte, e lo fa anche con gli sci ai piedi.
All’orizzonte c’è un Mondiale inedito, che torna a Cortina e che della bellezza di Cortina dovrebbe essere una celebrazione; ed il primo pensiero è proprio quello che si riesca a dare alla città l’evento che si merita.
Io mi faccio sempre tanti pensieri perché voglio arrivare pronta e anche al via dei mondiali di casa sarà così.
Sarà bello e anche stressante.
La pressione è il rovescio della medaglia di qualunque successo, ma non mi nascondo oggi e non lo farò in futuro perché ho l’ultima fetta della torta da recuperare e soprattutto perché della domanda “lo faccio per cosa?” ora conosco la risposta:
per vincere.