Nel ciclismo, la mano del compagno la senti sempre.
Anche se la fatica del pedale, dei calli e del polmone è soltanto tua, la presenza degli altri, il loro supporto e il loro aiuto li senti sempre.
Una mano.
Che si può materializzare in un braccio alzato, che ti da il 5 prima della partenza per darti coraggio, e che racchiude tutti i momenti passati insieme prima di allora.
Oppure nel lancio di una borraccia, che, come accaduto nella famosa foto di Coppi e Bartali, non è così importante sapere “chi l’ha passata a chi”.
O magari ancora nell’abbraccio che ti viene riservato in pullman sulla via del ritorno, che chiude una giornata di lavoro, di sudore e di stanchezza. A prescindere dal risultato.
Il ciclismo non mi ha mai fatto mancare la sensazione di gruppo, il profumo di spogliatoio, che è precisamente quello che mi ha fatto innamorare dello sport.
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Il mio sport è sempre stato condivisione.
Quando ero un adolescente, per esempio, dopo aver provato la pallacanestro e la pallanuoto, mi dedicai per un periodo al volley, con risultati più che discreti. Ero alto, atletico, coordinato, e mi inserirono subito nel gruppo under 18 nonostante fossi ben più giovane degli altri.
E ricordo che in quello spogliatoio si respirava già un’aria densa, orientata al risultato, alla prestazione. La gente pensava soltanto alla vittoria, senza concedersi mai il privilegio di un po’ di leggerezza e di svago, mentre io, invece, volevo soltanto allenarmi e divertirmi il più possibile.
Ed è per questo che cambiai.
Lo sport è sempre stato un compagno fedele, nella mia vita, ma non hai mai assunto un carattere prepotente, neppure una volta. I miei primi ricordi sono costruiti intorno a lui e al nostro rapporto, ma al centro ci sono sempre io, il me bambino, con tutti i miei desideri e le mie voglie.
Lo sport non è mai stato un obiettivo che consuma, un sogno di grandezza, ma piuttosto un’esperienza che accompagna. Un gioco bellissimo che mi ha sempre reso felice.
Come quando, all’asilo, facevo finta di star male pur di uscire un’ora prima e andare a fare nuoto, anche se poi non è che in vasca fossi chissà quale portento.
Galleggiavo a malapena.
Però mi piaceva, e guai a saltare una lezione.
O come quando, alle elementari, uscivo come un razzo da scuola per correre a casa e sedermi con i nonni e con papà a guardare gli ultimi chilometri del Giro, facendo il tifo per il Bettini o il Cipollini di turno. In equilibrio precario sulla punta del divano, seguivo con gli occhi e con il corpo le pieghe dei ciclisti, immaginando di essere io quello che spinge sui pedali e si fa spazio con i gomiti.
Oppure come quando i nonni mi regalarono la prima biciclettina color verde acido, che usavo in giardino senza troppa convinzione. Non è stato amore a prima vista e, ovviamente, andava bene così. Soltanto anni più tardi ho deciso di provare ad entrare in una squadra, in un gruppo strutturato, con gli allenamenti organizzati e tutto il resto.
E ricordo che dopo aver fatto la mia prima garetta, ed essere arrivato terzo, appena passato il traguardo, sono andato dai miei genitori e ho detto loro “basta, non lo faccio più”, perché mi ero divertito molto meno di quanto mi aspettassi.
Che poi la storia sia finita in modo diverso lo sanno tutti, ma quel momento è il perfetto riassunto di quello che lo sport rappresenta per me: non un traguardo ma un modo di vivere il mondo.
Il mio modo di esprimermi.
Non sono mai stato uno studente modello, e mi sono dovuto inventare una strada diversa per riuscire a far emergere quello che avevo dentro.
Le mie passioni.
Il mio carattere.
Non che fossi un casinista, questo no, facevo soltanto più fatica degli altri ad appassionarmi e a seguire le lezioni, rallentato anche dalla dislessia, che non da tutti è stata subito compresa e capita.
Se dovevo leggere un testo, magari, ci mettevo 15 minuti più degli altri e per alcuni professori, questa, era una colpa.
Un limite.
Quando il ciclismo ha iniziato a prendersi una fetta importante della mia adolescenza, le giornate si sono fatte sempre più corte e frenetiche, compresse tra i banchi di scuola, i viaggi e gli allenamenti.
Tornavo dal mio primo mondiale, quello di Firenze, e trovai ad aspettarmi un carico di lavoro, di verifiche e di interrogazioni che non ero pronto a sostenere. “Se gli altri ne fanno tre, tu devi farne quattro, visto che spesso non ci sei”: per qualcuno c’era sempre la sensazione che il “tempo dello sport” non fosse investito, ma fosse sprecato.
Mi sono trovato davanti ad un bivio prima di quando avrei voluto.
E allora ho inforcato le corna della mia bici e mi sono gettato a capofitto nella strada che amo di più.
Una strada che oggi mi piace ancora, e che si rinnova sempre di panorami e di compagni nuovi. Ogni inizio stagione ha addosso il profumo di “macchina nuova”, come una scoperta, o come un bambino che all’alba del giorno di Natale scarta tutti i pacchetti che trova sotto l’albero.
Bici e ruote rinnovate, materiali e tecnologie all’avanguardia, uno spogliatoio fresco che mi aspetta: nulla pareggia la sensazione di un inizio stagione, con il suo carico di elettricità e di voglia di fare.
E quest’anno ci arrivo anche con una convinzione nuova, eredità di Tokyo: che mi ha dimostrato, una volta ancora, se lavori puoi ottenere tutto quel che vuoi, ed è per questo che si deve continuare a sognare in grande.
Le gambe fanno sempre male, dopo un allenamento.
La pancia è sempre vuota, quando sei a dieta stretta.
Ma lo sport resta lo sport, e la testa, pian piano, si riempie di bei ricordi.