Da bambino io ero cattivissimo.
Una vera peste, volevo sempre impormi sugli altri perché io ero più forte di tutti, il migliore. Volevo che vincesse la legge di Frank, su ogni cosa, in ogni momento.
Sono cresciuto a Matanzas, una città nel nord di Cuba, affacciata sul mare, a due ore di strada di distanza dall’Avana. Zona di coste, terra di confine: i quartieri lì non sono tutti facili, non sono tutti luccicanti e sicuri.
Vivevo con la nonna, che era una donna dura.
Doveva esserlo perché io ero bravissimo a farla disperare.
Lei gridava sempre a voce alta:
Frank! Frank!
e io scappavo via, nascondendomi tra le strade polverose della mia città.
Papà non c’era. Viveva negli Stati Uniti.
Mia mamma era in Spagna e ogni tanto saliva su un aereo e veniva a trovarci. Ad occuparsi della mia educazione, insieme alla nonna, ci ha pensato la strada.
La giungla della città, con le sue regole facili da capire e difficili da spiegare.
Un giorno, proprio mentre mia madre era in visita, mi sono allontanato da casa e mi sono perso per le vie. Sono arrivato in un quartiere nuovo, che non conoscevo, e mi sono affacciato dentro a una palestra. Stavano lottando. Sono rimasto incantato a guardarli per ore, senza accorgermi che si era fatto buio.
Poi che si era fatto tardi.
Sono entrato:
posso giocare anche io?
Mi hanno lasciato provare ed ero bravo. Senza lezioni, senza guida, ero bravo. Sapevo cosa fare sul tappeto, ero capace di prevalere sugli avversari.
Avevo sette anni.
Quando sono tornato a casa avevo già deciso tutto: sarei andato di nuovo lì, e avrei fatto quello. Sarei diventato un grande lottatore. Mia mamma ha provato ad impedirmelo, mi ha sgridato tanto:
la palestra è troppo lontana da casa, non è sicuro andarci.
Ma io ho aspettato che lei se ne tornasse in Spagna per ripresentarmi alle porte della palestra. Mi ero portato dietro il documento della nonna per dimostrare di avere il suo consenso a iscrivermi. Ma quando hanno letto “Chamizo” ogni dubbio è sparito anche in loro. Conoscevano quel cognome: mio papà è stato un grande lottatore.
Ecco da chi hai preso quel talento. Entra, non c’è bisogno di chiamare nessuno. Questa è casa tua!.
Dal quel giorno in avanti non ho cambiato una sola volta i miei sogni per il futuro.
Anni dopo me ne sono andato da Cuba e sono venuto in Italia in cerca di una nuova occasione, dopo che lì ero stato squalificato per due anni. Oggi si sente spesso i giovani lamentarsi delle ingiustizie o delle difficoltà, ma quello che hanno fatto a me avrebbe steso un toro.
Avevo vinto una medaglia di bronzo ai Mondiali, in Russia, ad appena 18 anni. Ero il futuro della lotta per la nazionale cubana poi, all’improvviso, qualcosa si è rotto.
Dovevo perdere 10 chili per rientrare nella categoria dei 55, quella in cui volevano che gareggiassi, ma ho fallito il peso per 100 grammi e mi hanno squalificato.
Avevo al collo una medaglia mondiale e sono stato squalificato per 100 grammi: un grande dispiacere.
100 grammi, come un piatto di pasta e io non mi negherei mai un piatto di pasta.
100 grammi, come un piatto di pasta, e 2 anni, 730 giorni, per digerirlo.
A Cuba una squalifica significa perdere lo stipendio, vuol dire tornare a vivere in povertà come facevo da bambino, quando giocavo a piedi nudi per le strade di Matanzas. Mi sono dovuto ingegnare. Ho giorno ho persino venduto la divisa della nazionale cubana pur di comprare il pane per la nonna.
Ma io non volevo piegarmi al Mondo e alle difficoltà.
Io voglio fare esattamente quello che serve per vincere. L’Italia mi ha accolto a braccia aperte, aiutandomi a ricostruire la mia voglia di combattere e facendolo nel rispetto della mia natura. Con l’aiuto del Centro Sportivo Esercito sono diventato uno dei migliori atleti a livello internazionale e di questo non mi dimentico.
Oggi io mi sento italiano fino alle ossa e spesso, nel difendere l’azzurro, quelle ossa me le sono anche spezzate. Ma è così che è fatta la vita di un lottatore: cadute, lividi e risalite. Si impara presto a convivere con il dolore sul tappeto.
Prima di partire per l’ultimo Mondiale, in Kazakistan, mi sono fatto male a un tallone.Le risonanze le ho fatte solo adesso perché prima di partire non si poteva sapere.
Non lo dovevano sapere gli avversari.
Non lo volevo sapere io.
C’erano da prendere la medaglia e la qualificazione a Tokyo.
Non avevo alcun dubbio che quel posto, che quel pass, mi appartenesse già prima di partire per Astana ma ho avuto paura che il dolore mi bloccasse e mi impedisse di prendere quello che volevo.Perché a volte in gara succedono cose imprevedibili e il dolore è la cosa più imprevedibile che esista.
Gli acciacchi nella lotta contano tantissimo.
Non si tratta solo di fisico ma anche di testa. È psicologia pura.
Se un avversario capisce che qualcosa ti sta facendo male corri un rischio vero, perché cambia tutto e i valori sul tappeto possono anche ribaltarsi senza preavviso.Si può intuire il dolore di un lottatore dalle smorfie, dalla faccia tesa o preoccupata, dalla postura delle braccia o delle gambe.
I migliori di noi riescono a capirlo anche dalla forza che mette in una presa.
Se ti stringo e qualcosa del tuo corpo si muove come non dovrebbe io me ne accorgo: è il lascito di una vita spesa a fare quello che faccio.
Durante il Mondiale, in semifinale il francese Khadjiev, se n’era accorto, aveva capito che qualcosa nella mia catena posteriore non funzionava e ha passato tutto l’incontro a cercare di raggiungermi la gamba.
Io la tenevo dietro, lontana, e lui a testa bassa spingeva per provare a prenderla.Se una gamba non regge come dovrebbe ti viene a mancare un appoggio forte e tu devi sopperire con il tronco, con le braccia e con gli addominali.
È normale che prima o poi scoppi.
È quello che mi è successo in finale, contro il russo, perché dopo tre minuti avevo il fiato corto e mi sono dovuto accontentare del secondo posto.
E io non sopporto accontentarmi delle cose.
Odio sentirmi soddisfatto di quello che non è il massimo.
Odio sentirmi felice per qualcosa di non perfetto.
Perché se porti a casa un buon risultato, magari un podio, ma non sei riuscito a vincere, finisce che ti siedi.Se sei felice di un terzo posto arriverà il giorno in cui poi sei felice anche del quinto.
Quello sarà l’inizio della fine.
Conta solo se vicino al tuo nome compare il numero uno.
Il resto è rumore.
Adesso penso che al Mondiale sia andata benissimo anche con l’argento, che vuol dire andare a Tokyo, soprattutto considerate le mie condizioni fisiche.
Ma in quel momento lì mi rodeva da matti non aver preso il terzo titolo, dopo quello nei 65 chili a Las Vegas nel 2015 e quello nei 70 a Parigi 2017. Nessuno mai ha vinto tre titoli mondiali in tre diverse categorie di peso e io sono andato a pochissimo dal fare la storia.
Intanto mi godrò una nuova avventura olimpica dopo quella di Rio e ho tutta l’intenzione di viverla diversamente. In Brasile avevo sentito tutto il peso delle responsabilità, tutte le aspettative della gente che dava il mio oro per scontato.
Ricordo di essermi sentito come in trance per tutta la giornata e di essere tornato sui miei piedi solamente nella finale per il bronzo.
Ma a Tokyo sarà diverso. Vado per fare quello che mi piace: mi voglio divertire. Sarebbe una stupidaggine dire che non vado per prendere l’oro. Anche nella nuova categoria io vado per vincere. Certo che lo farò. Ma prenderò l’oro perché è quello che voglio e non quello che devo.
Quella del peso è una costante della mia carriera perché è la fotografia perfetta del mio modo di pensare, soprattutto dopo la squalifica.
Il nostro mondo è pieno di gente che preferisce fare diete folli per rientrare nella categoria inferiore ed essere tra i favoriti, piuttosto che guardarsi allo specchio, salire sulla bilancia e, in base a quello, combattere contro chi è giusto combattere. Perché cambiare categoria non significa affrontare un avversario più grande e grosso di come sei fatto tu, significa affrontarne 4 o 5 così.
4 o 5 in fila, in ogni torneo, settimana dopo settimana.
È per questo che certa gente preferisce essere un pesce grosso dentro uno stagno piccolo.
Io sono diverso.
Matanzas, dove è cresciuto questo bambino scalzo e cattivissimo, è una terra di marinai e di lottatori. Ma anche di scrittori e di poeti. Il più famoso tra quelli nati lì è Pedro Juan Gutierrez, che una volta scrisse:
Beh, non mi è mai importato niente dell’opinione degli altri. E quelle poche volte che mi sono lasciato condizionare sono rimasto fregato, ho commesso un errore a alla fine sono stato costretto a mollare tutto e tornare sui miei passi.
Ecco, Frank non torna indietro, Frank guarda solo avanti.