Se c’è una cosa che mi fa davvero girare le balle è sentire i racconti nostalgici dei mancati fenomeni. I mancati campioni: quelli che tengono l’alibi sempre pronto nel caricatore così ci mettono di meno a sparare la cazzata.
- Io, io, io, io a diciassette anni avrei potuto, sarei riuscito, ce l’avrei fatta. -
- Ah se non fosse stato per quell’allenatore, per quel compagno, quel problema fisico, per quel governo o quel giorno di pioggia. -
Ce ne sono in ogni settore: sport, musica, cinema, dove vi pare.
In ogni ambiente a fidarsi del parere di chi non ha sfondato ci siamo persi decine e decine di Van Gogh, di Jim Morrison e di Pelè.
Ma io non ci credo (quasi) mai.
Nel basket poi giuro di averne sentite di tutti i colori sui fenomeni inespressi.
Il mio alibi preferito?
- Ero bravo eh, però a me piaceva la figa e mi piaceva troppo far festa.-
Ah perché a me no?
Io sono certo di essere stato di gran lunga il miglior giocatore di sempre a fare casino. Il migliore in assoluto a far festa e divertirmi, roba da far sembrare il secondo in classifica un chierichetto in confronto, ma non mi ha mai sfiorato l’idea che questa fosse una ragione valida per spiegare agli altri se qualcosa in campo non funzionava.
Che poi bisogna anche essere sinceri e dirla tutta: se davvero ti piace far casino e con lo sport te la cavicchi ti conviene allenarti duramente, devi considerarlo come un vero e proprio investimento perché più sali di categoria e più le feste e le attenzioni femminili si fanno di livello.
Non ti serve mica essere Zichichi oppure Popovich per capirlo.
Quando mi chiedono a che età ho cominciato a giocare io rispondo alla domanda con un’altra domanda, come farebbe Marzullo:
- tu quando hai iniziato a camminare? –
Perché nessuno si ricorda quando ha iniziato a camminare e se dice di ricordarselo sta dicendo una cazzata. Ecco il basket per me funziona così.
Io sono un figlio d’arte, mio papà è stato prima giocatore e poi allenatore, mio fratello maggiore pure, per cui io non ho un ricordo d’infanzia in cui non avessi un pallone in mano.
Che poi pallone, parliamone. Ai tempi non è che bastasse un click sul telefono per comprare un canestro regolamentare o una palla ufficiale: bisognava ingegnarsi.
Casa mia era piena di canestri improvvisati, il mio preferito era quello fatto con il fustino grande del Dixan, quello in polvere, che non finiva mai e il detersivo giù in fondo diventava così duro che serviva lo scalpello per toglierlo dopo un po’ che era aperto.
Tiravo di tutto verso i canestri fai-da-te che attaccavo sui muri di casa: le palle di gomma piuma (che facevano traiettorie a banana come in Holly e Benji), palline da tennis, calzini arrotolati sporchi, di tutto.
Io vivevo per quello.
Solo ed esclusivamente per giocare a basket.
Anche mio fratello giocava ma lui non aveva la mia stessa malattia. Andavo anche dieci volte nel corso di un pomeriggio a chiedergli di giocare con me e pur essendo un bambino anche lui dopo un po’ si stufava. Io no, mai. Sentivo addosso una passione inaudita.
Si dice che per meccanizzare un gesto, anche se hai del talento, servano almeno diecimila ripetizioni tutte identiche e poi il cervello lo memorizza, ma io già a dieci anni ero molto, ma molto più in là nel conteggio.
Quando si guarda lo sport di squadra fatto dai bambini ci si rende subito conto di una cosa, di una qualità che conta più di tutte le altre: quello sveglio arriva prima.
Non c’è niente da fare, se un bambino è più sgamato e si adatta più velocemente degli altri, quando è ancora piccolo eccelle.
Il talento, il fisico, la coordinazione ci mettono anni a emergere, a uscire fuori e formarsi per bene, ma il bimbo sveglio lo riconosci al primo sguardo furbo o al primo movimento fatto in anticipo rispetto a tutti i compagni.
E io, ovviamente, ero un bimbo sveglissimo.
E da lì, dal piedistallo del bimbo-sveglio, si sale su una giostra nella quale più sei bravo e più bravo diventi, perché al bambino bravo si permette di giocare di più e quindi di migliorare a velocità doppia rispetto agli altri.
Giocavo da solo, giocavo con i miei coetanei, poi giocavo con la squadra di mio fratello perché me la cavavo a sufficienza per farlo, venivo convocato in ogni selezione possibile e immaginabile, e così via. Per questo la mia quotidianità era un continuo confronto con gente più grande che mi permetteva di diventare sempre più forte.
È una questione matematica.
Ho letto un articolo che parlava della nazionale di hockey canadese del 2006: la maggior parte dei convocati era nata tra gennaio e aprile. Perché quando inizi a fare sport di solito vieni raggruppato per anno di nascita, ma nei bambini 6, 7 o 10 mesi di differenza nel fare una cosa, sono un eternità e questo crea un gap.
Questo piccolo gap iniziale permette ad un bambino di essere notato in mezzo agli altri, e quindi di finire nelle selezioni o magari nel gruppo dei più grandi e questo gli offre l’occasione crescere ancora più velocemente di chi è già partito più piano; il gap così si allarga ancora un po’. È un ciclo costante.
Poi oh, ovviamente Lebron James è nato il 30 dicembre e tanti pipponi sono nati in gennaio, ma resta un dato che mi fa riflettere.
Io giocavo tantissimo e diventavo sempre più bravo, finchè un uomo non ha deciso di cambiarmi la vita e quell’uomo si chiama Paolo Rossi.
Paolo Rossi, proprio lui, il Pablito nazionale, che vincendo il Mundial del 1982 ha praticamente obbligato moralmente tutti i bambini dell’epoca a darsi al calcio.
E io, da vero patriota, non ho esitato un secondo.
Quindi calcio e basket insieme, tutte le settimane, nei weekend giocavo anche cinque partite diverse, non ero mai stanco.
Non ero mai stanco anche perché pesavo come la federa bagnata di un cuscino.
Non crescevo, rimanevo piccolino e se questo era stato un bel vantaggio all’inizio, a mano a mano che anche gli altri iniziavano a svegliarsi per me tutto si faceva più complicato. Complicato fino a un certo punto però, visto che facevo piovere quarantelli ogni domenica.
C’è stata una stagione nella quale a Caserta in serie A giocava Oscar, che aveva medie spaventose, e io compravo il superbasket di martedì solo per vedere se aveva fatto più punti lui nella sua partita del weekend o io nella mia. Il fantasma di Oscar è stato l’avversario più temibile con cui abbia mai battagliato in carriera.
Comunque, nonostante i risultati, la carenza di fisico iniziavo a sentirla sul serio, più che l’essere piccolo a darmi noia era l’essere sfigatino fisicamente, senza muscoli e senza forza. Mi ricordo una straordinaria finale del torneo delle scuole di calcio, giocata al campo comunale con le gradinate piene: tutte le classi belle in ordine e io giù in campo.
Non avevo forza a sufficienza per fare i lanci lunghi e per calciare in porta dalla distanza per cui ero diventato un dribblomane e li scartavo sempre tutti.
Parto dalla difesa e salto gli avversari, uno per uno, scarto anche il portiere e sono a porta vuota, ma, visto che ero sì fragilino, ma anche un po’ ganassa (che per chi non lo sapesse vuol dire spaccone) (oppure pirla dipende) decisi di non segnare ma di farmi rimontare apposta da un difensore per saltarlo nuovamente.
Palla persa e figura di merda più grande di tutta la mia vita servita davanti a tutta la scuola.
Arrivato a diciassette anni, quando l’estate stava per finire, mio padre una sera mi prese da parte e mi disse:
- Gianmarco cosa vuoi fare da grande? Non puoi giocare a calcio e basket per sempre. Scegline uno e domani a mezzogiorno me lo dici. -
Le opzioni sul tavolo erano: giocare in serie c a basket, con mio padre allenatore, oppure illuminare la stagione calcistica dell’associazione calcio Chiarbola, stazionaria, fieramente, in terza categoria.
La terza categoria di calcio è l’ultima che esiste, sotto non c’è nulla, solo il carcere, che poi numerosi difensori che trovi in terza si sono fatti le ossa in carcere per davvero.
Era come dirmi: vuoi giocare nei Miami Heat oppure al Cervia con Ciccio Graziani?
Nonostante la notte passata in bianco non avevo alcun dubbio.
Il giorno dopo a tavola però ero nervoso e aspettavo in silenzio.
Il mio amore per i miei genitori è sempre stato enorme e il rispetto per mio padre, che mi aveva insegnato tutto quello che sapevo, era tale per cui non avrei mai preso parola sull’argomento prima che lo facesse lui.
Arrivati al dolce lui mi guarda e fa:
- allora, hai deciso? Vai a giocare a calcio no? –
E io, orgoglioso com’ero, non ho fatto altro che rispondere:
- si, beh, certo! –
Non avevo la forza di contraddirlo, in fondo lui quella squadra di basket l’allenava e se mi consigliava il calcio voleva forse dire qualcosa e così io a 17 anni ho smesso di giocare a pallacanestro.
Mio padre avrebbe dato via qualunque cosa per sapermi felice, e forse lui mi vedeva davvero meglio con la palla tra i piedi piuttosto che in mano, anche per una questione fisica.
Per fortuna che ci sbagliavamo tutti e due.
E dopo 4 o 5 mesi senza basket il richiamo si è fatto troppo forte e sono tornato a giocare, in c2, e ho iniziato a fare trentelli su trentelli.
E così è cominciata la parte carriera che poi tutti conoscono.
Piccolo sono rimasto piccolo ma direi che non se n’è accorto nessuno. O meglio se ne sono accorti tutti ma non hanno potuto farci niente, un po’ come Davide contro Golia.
Nella Bibbia raccontano che c’era una guerra tra i filistei e gli israeliti, e gli eserciti al completo stavano arroccati sui due versanti di una montagna.
Nessuno se la sentiva di sferrare l’attacco per primo, giù nella valle, lasciando la posizione sopraelevata sul monte.
Per cui, attacca tu che attacco io, alla fine i filistei proposero lo scontro tra i campioni per decidere chi avrebbe vinto la guerra: e mandarono Golia, due metri di bestia, pure brutto e anche cattivo.
Il terrore che suscitava era tale che nessuno tra gli israeliti si prese la briga di andare a farsi accartocciare dal gigante, nessuno tranne Davide, un contadino mingherlino.
Non che gli israeliti fossero granchè fiduciosi sulle sue possibilità, ma tra sostenerlo oppure offrirsi di sostituirlo, decisero tutti di applaudire con forza: Daje Davidino.
Ha vinto Davide, il trucco è stato usare la fionda, il corpo a corpo non c’è mai stato ed è così che ho fatto per tutta la mia carriera.
Ma una cosa nella Bibbia non la dicono: che a andare contro il gigante c’è il rischio che ti caghi addosso e se con la fionda sbagli il colpo finisci ridotto in marmellata, buono solo da spalmare in un panino.
Per cui, dico io, a quelli che raccontano di aver sfiorato il successo: se non ci siete arrivati perché avete avuto paura di diventare marmellata: ci sta, lo capisco.
Ma se volete dare la colpa all’universo oppure alle feste, lasciate stare per favore.
Soprattutto le feste, davvero, lasciatele in pace che di quelle sono ancora il campione mondiale indiscusso.