Un giorno, durante la ricreazione, invece che stare in cortile a giocare con tutti gli altri ragazzi, ho pensato bene di prendere il nastro adesivo e impacchettare la rotatoria che c’era di fronte all’ingresso della scuola. Poi, mi sono infilato un gilet giallo fosforescente e mi sono messo a dirigere il traffico con una paletta.
Ci è voluto un po’ prima che le persone al volante si rendessero conto che non ero esattamente un vigile urbano, ma poco più di un bambino.
È stato il bidello a riportarmi in classe.
Sospeso.
L’anno seguente, messo da parte il mio desiderio di gestire la viabilità del paese, ho deciso di concedermi un’uscita scenografica dalla finestra della classe.
(Prima che pensiate troppo male di me: ero al primo piano eh!)
La maestra faceva quel giochino sadico da insegnanti in cui scorri il dito sulla lista degli alunni, in attesa di essere folgorato sulla via di Damasco e individuare la vittima perfetta. Sono momenti unici perché non sai mai cosa fare.
La guardi negli occhi e, dimostrando di non aver paura, le fai credere di essere preparato?
Fai cadere la penna per uscire dal suo raggio visivo, col rischio però che lei lo noti?
Oggi interroghiamo….mmm…Tamberi!
Et voilà, sono saltato fuori dal cornicione.
Un’altra volta ancora ho deciso di decorare per Natale la mia classe con particolare minuzia. Essendo io un grandissimo amante dell’iconografica babbo-natalizia non ero soddisfatto dell’ubicazione dell’abete decorato, che si trovava all’ingresso della scuola.
Per non saper né leggere né scrivere, ho finto di andare in bagno e sono ritornato in classe con l’albero, dopo averlo infilato a forza dentro allo sgangherato ascensore scolastico. (Quell’anno eravamo al quarto piano.)
Sospeso.
Sospeso sì, bocciato mai, perché, da vero furbetto qual ero, il mio profitto scolastico era sempre talmente buono da fare da paravento al mio carattere esuberante.
Queste sono quelle che mi ricordo io, ma ogni volta che rivedo i miei compagni di classe mi tirano fuori qualche chicca sempre nuova che avevo completamente dimenticato.
Il sottotitolo comunque è: io da bambino ero un macello.
Un casinista vero.
In qualunque posto mi mandassero, scuola, camp, oratorio, me ne tornavo a casa in un pacchettino molto presto.
Ecco, dai, riprendetevi Gianmarco.
Mai nulla di grave direi, ero più una simpatica canaglia che non un micro-teppista, ma immagino che per i miei non sia stata una passeggiata.
La sola cosa che davvero mi placava era una minaccia specifica. Soltanto quella.
Guarda che oggi non vai all’allenamento!
Quello era il mio ultimatum senza appello, e capitolavo sempre.
Nessun genitore toglierebbe mai lo sport ad un figlio, e i miei, ovviamente, non facevano eccezione, ma quella era la sola lingua che capivo.
Perché allenarmi era troppo bello, la sola cosa di cui davvero mi importasse al punto di scendere a compromessi e, la maggior parte delle volte, funzionava.
L’allenamento non era ancora, all’epoca, quello per il salto in alto, bensì quello per il mio primo grande amore: la pallacanestro. Di questa mia sfrenata passione, che coltivo anche oggi, si sa quasi tutto, ma in pochi sanno che la palla a spicchi mi ha corteggiato praticamente fino all’ultimo momento disponibile.
È come se il basket mi avesse trattenuto con la punta delle dita il più possibile, prima che accettassi di lasciarlo andare, come si fa negli amori impossibili dei film romantici in stile Hollywood.
Mio padre aveva fatto le Olimpiadi di Mosca 1980 nel salto in alto.
Cioè: le Olimpiadi!
Sopra quello non c’è niente!
In più ogni volta che mi cimentavo nella disciplina dimostravo di essere molto portato. Però il salto in alto resta materia da campionati studenteschi, non si poteva mica paragonare allo scricchiolio del parquet e al rumore della retina.
Vuoi mettere?
Poi, nel 2008, mentre giocavo a basket a pienissimo regime, ho vinto il campionato italiano studentesco di salto in alto. Quasi per sbaglio, di sicuro senza accorgermene. Prima il provinciale, poi il regionale e così, di colpo, ero campione nazionale.
Nessuno mi ha costretto a cambiare, ma gli uccellini che mi ronzavano intorno alla testa cantavano tutti la stessa filastrocca:
è il momento di provare, se non lo fai poi ti mangerai i gomiti.
E avevano ragione.
Passare da uno sport di squadra al salto in alto ha richiesto qualche sforzo di adattamento. Lo sport individuale ha sia pregi che difetti e bisogna trovare per il proprio Io uno spazio confortevole tra le due cose.
Mi manca la sensazione di vincere una partita all’ultimo tiro, per esempio, perché quando un gruppo di persone vive la stessa esplosione di felicità improvvisa e fortissima, l’energia si moltiplica come un valore esponenziale.
Ed è indescrivibile.
Nello sport individuale questo non succede, però sei padrone assoluto del tuo destino, giochi a scacchi con te stesso e devi costruirti una narrativa tutta tua per imparare a gestire le vittorie e le sconfitte.
Soprattutto le sconfitte perché quelle hanno una gestazione complicata.
Nella sconfitta si impara, sì.
Ma solo se hai voglia di ascoltarla.
Se no resta un dispiacere muto, come una cicatrice ispessita.
E non serve a nulla.
Nel passaggio tra le due discipline io, per fortuna, sono rimasto fedele a quel che sono sempre stato, trovando un equilibrio nuovo tra lo spirito creativo e il rigore richiesto dal salto in alto.
Il saltatore sembra quasi un soldato.
Come uno Stormtrooper di Star Wars, che deve ripetere all’ossessione un gesto per renderlo meccanico. Per renderlo identico al precedente e al successivo.
Dentro questo schema rigido però ci metto tutta la mia diversità e il mio approccio emotivo allo sport e alla vita.
Prendiamo il salto in gara, per esempio.
Nei primi trenta secondi non c’è nulla intorno a me, è pura visualizzazione.
Chiudo gli occhi e ripasso ogni singolo aspetto tecnico di quello che devo fare.
A molti basta questo.
A me no.
Io devo tradurre tutto e farlo passare dalla testa ai muscoli e ai nervi.
Metabolizzare il pensiero e trasformarlo in energia.
Passati i trenta secondi urlo, il mio corpo si connette ad un stato di flow e il mood da gara spazza via tutto il resto.
È un vero e proprio trasferimento di elettricità e si ancora a tutto quello che il cervello ed il cuore catalogano sotto la voce: il momento mio.
In allenamento sono incredibilmente maniacale, come tutti i saltatori.
Ogni settimana facciamo un paio di sedute dedicate esclusivamente al salto e ne proviamo circa una cinquantina. Ci sono sempre 4 telecamere che riprendono ogni singolo gesto da angolazioni diverse e al termine di tutto mi riguardo 200 volte, per studiare i dettagli. Anche i più piccoli.
Devo farlo per poter competere.
So di avere una dote, ma non sento di avere lo stesso talento naturale dei miei competitor e quindi questa è l’unica via per andare in alto quanto loro.
Le differenze tra un salto buono e uno che non lo è sono talmente minime che se prendi il video e lo blocchi al momento esatto dello stacco è impossibile dire come finirà l’esecuzione. Anche per un occhio allenato.
È questione di percezioni e di attivazione neuro-muscolare, e la mia risponde tanto alla fatica quanto alla creatività.
Il mondo dello sport è pieno di fenomeni da allenamento. Gente che fa risultati pazzeschi senza la pressione addosso e si rimpicciolisce poi, schiacciata dalla grandezza delle cose.
Per me è esattamente l’opposto.
A parità di condizione fisica, di preparazione, a parità di tutto, tra un mio salto in gara e uno in allenamento ci sono almeno 20 centimetri di differenza.
Quasi sempre.
Anche se sono esigente con me stesso, anche se la regola è che al terzo errore vado a casa comunque anche in allenamento, la differenza resta quella, perché le energie della gara non sono replicabili in provetta.
Nel tempo ovviamente ho imparato a leggere i risultati e so tradurre la misura di un salto da allenamento nell’ottica della gara. E in più sono anche un ottimista, che non guasta mai.
In questo balletto infinito tra creatività e rigore, tra numeri e sensazioni, il solo momento della mia carriera in cui saltavo alla stessa maniera in allenamento e in gara è stato in preparazione di Rio, dove l’onda lunga dell’emozione olimpica, attraversava i miei capillari senza fermarsi mai, come se avessi una circolazione sanguigna nuova e mai provata prima.
Poi la sfiga ci ha messo lo zampino.
Ma con la sfiga si scende a patti, come con tutto il resto, ed io lo faccio a modo mio, in un incontro tra testa, cuore e gambe che è un pezzo unico, come un quadro di Picasso.
Oggi nel pensare ai Giochi riesco solo a guardare avanti perché non vedo l’ora di tornare in uno stadio Olimpico da bimbo grande, dopo che a Londra l’ho fatto più con gli occhi da bambino che altro.
E anche lì, il mio programma sarà il solito.
30 secondi a processare dati.
Urlo.
Una scossa elettrica.
Il pensiero che diventa forza.
E poi boom.